Il Dossier Benjamin (Treccani, pp. 373, euro 26) scritto dal critico americano Fredric Jameson sul filosofo tedesco Walter Benjamin è la prova di una lunga passione mai spenta.

Tradotto da Flavia Gasperetti, con l’introduzione di Massimo Palma, il libro è più schietto e giocoso rispetto alla prosa alta adottata da Jameson e trova posto in un trittico ideale insieme a quello dedicato a Theodor Adorno (grande e problematico interlocutore di Benjamin: Tardomarxismo, manifestolibri) e a Bertolt Brecht (protagonista di un’amicizia stellare con l’autore delle Tesi di filosofia della storia: per Cronopio).

Frutto di cinquant’anni di lavoro in questo libro su Benjamin è possibile sentire l’energia che alimenta la macchina da guerra approntata da Jameson contro il discorso sulla fine di tutte le «grandi narrazioni» che ha dato vita alla narrazione più grande di tutte, quella di un capitalismo «assoluto» che sembra aver chiuso il mondo, e la sua storia, in una totalità apparentemente insuperabile. Oggi si è arrivati a credere nella «fine del mondo» riprodotta nelle distopie sulle piattaforme digitali.

Lo scopo di Jameson è invece riaprire la prospettiva del possibile e dialettizzare una storia ridotta al presentismo analizzando proprio la produzione culturale, parte di un modo di vita e di produzione capitalistico. Benjamin gli offre uno strumento straordinario: l’«immagine dialettica».

Questo concetto permette di dare una forma intelligibile all’insidiosa strategia del capitalismo «postmoderno» che evoca una totalità mentre la nega e in questa antinomia trova la propria realizzazione. Pensare invece l’immagine dialettica del capitalismo significa già dare forma e prospettiva a qualcosa che si presenta come evanescente, «naturale» o senza ideologia.

Jameson evidenzia inoltre il fatto che in Benjamin l’immagine dialettica è «una costellazione di fattori concreti e fenomeni interrelati» basata su una polarità tra ciò che è avvenuto nella storia e ciò che di nuovo si presenta nell’evento. Essa è una «monade storica», una delle tante che sono in relazione, coesistono e confliggono. In questo «vortice» ruotano il prima e il dopo e si scopre che il reale è un’attualizzazione del possibile e l’Uno è una forma del molteplice. L’immagine dialettica mantiene così aperto il divenire, mentre il capitalismo oggi fa l’opposto e lo richiude in un’impotenza organizzata.

A Jameson questa visione ricorda quanto Gilles Deleuze ha scritto nei suoi libri sul cinema a proposito dell’«immagine-tempo». E c’è anche, aggiungiamo noi, quel libro straordinario, a suo modo benjaminiano, La piega (Einaudi), in particolare sulla monade che include l’universo composto da infinite monadi che raddoppiano l’esterno attraverso un interno ad esso coestensivo.

Quella di Jameson è un’osservazione decisiva che dovrebbe prima o poi dissuadere i sostenitori della critica conservatrice, e infondata, per cui Deleuze sarebbe il teorico della «superficializzazione del mondo», o addirittura del capitalismo neoliberale. Jameson, invece, conosce bene l’opera di Deleuze, la rispetta poiché è all’opposto l’espressione di una nuova idea di «dialettica». A tale proposito è utile leggere un saggio che ha scritto per un convegno su Deleuze in Brasile nel 1996, curato da Eric Alliez.

Una monade è la creazione di una nuova totalità in cui il passato è usato per riattivare le potenze a disposizione nel presente (si pensi al rapporto tra la rivoluzione francese e l’immaginario della repubblica romana). Altre rivoluzioni, quella sovietica per esempio, hanno spaccato la falsa continuità della storia universale inventando un nuovo rapporto con il futuro. Opzioni differenti che alimentano uno «storicismo monadico», l’espressione dell’«anti-continuismo» di Benjamin che interrompe «il corso del mondo» e disfa la riproduzione del dominio.

Nell’ultimo capitolo del libro di Jameson ci sono pagine virtuose in cui è spiegata l’originalità di una filosofia della redenzione che, per Benjamin, non evoca un mondo fuori dal mondo (l’avvento del regno di Dio), ma un «balzo di tigre» da un punto della storia verso un altro imprevedibile.

È proprio questa possibilità che sembra essere stata recisa dal capitalismo «assoluto». Invece, ed è questa la prospettiva di Benjamin, ogni attimo può essere il momento della giustizia per gli oppressi, e gli sconfitti rimossi dalla storia dei vincitori. E, quando davanti a noi c’è la «catastrofe», la «malinconia» dell’Angelo della storia trasportato dalla tempesta ricorda le potenze inoperose.

Questo uso della teologia è tutt’altro che consolatorio, prospetta l’inammissibile in un mondo in cui è stata dichiarata la fine di ogni alternativa. L’operazione può finire nel «misticismo», avverte Jameson. E tuttavia, sul filo del paradosso, quello di Benjamin è uno dei modi per affrontare l’impotenza di cui la sua stessa teologia è l’espressione. Il suo messianesimo rivoluzionario è la speranza di chi non ha più speranza. È il segno di un futuro che sembra rimosso ma che può essere «redento». Il presente va dunque storicizzato mentre è sempre più grande il pericolo per i viventi e il pianeta.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

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