Il concorso di colpa plurimo nella crisi del governo Draghi

Alla vigilia della parlamentarizzazione della crisi di governo, l’unico dato positivo che si può sottolineare di tutta questa faccenda è proprio il rinvio alle Camere di ogni decisione sul...

Alla vigilia della parlamentarizzazione della crisi di governo, l’unico dato positivo che si può sottolineare di tutta questa faccenda è proprio il rinvio alle Camere di ogni decisione sul futuro dell’esecutivo.

Ciò restituisce al vero fulcro della Repubblica quella dignità costituzionale e quel ruolo politico ben preciso e definito che è sembrato appannarsi nel corso dell’ultimo anno e mezzo, da quando a Draghi è stato dato il mandato per rimettere insieme una maggioranza che proteggesse i grandi interessi imprenditoriali e finanziari, più che gli interessi generali del Paese.

Questione di punti di vista. Ma, visti tutti i mediocri tatticismi di queste ore, nessuno potrà negare che il fallimento dell'”unità nazionale” draghiana è, anzitutto, il venir meno della presunta tecnicità di un governo che era, e continuerebbe ad essere nonostante le defezioni pentastellate, invece un esecutivo prettamente politico, con una chiara linea di piena applicazione dei dettami europei in materia di distribuzione delle risorse del PNRR.

Una valanga di miliardi di euro che sono stati pensati per risollevare le sorti economiche dell’Italia da un altro punto di vista rispetto a quello delle esigenze dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e dei pensionati.

Che il governo Draghi non sia riuscito a sopravvivere alla congiunzione tra le contraddizioni prettamente elettoralistico-politiche della primavera con l’applicazione delle direttrici di Bruxelles e Francoforte in merito alla destinazione dei fondi del “Piano” per antonomasia, rende evidente come abbia ceduto, prima ancora del fronte meramente tecnico, quello più marcatamente politico.

La crisi non è soltanto un motu proprio di Giuseppe Conte e dei Cinquestelle del suo nuovo corso. E non tanto perché si debba ottemperare alla sacra legge dei proverbi e dei detti, per cui, in questo frangente, “la colpa non sta mai da una parte sola“. Non serve cercare una sorta di alibi per chicchessia.

Basta attenersi ai fatti: e questi ci dicono di come le forzature di Draghi nei confronti di un livello di difesa sociale minimo, rappresentato da alcuni tentativi da parte di grillini di far largo a proposte di difesa dei diritti del mondo dei più deboli in mezzo alle tante misure a favore dei soli imprenditori, abbiano contribuito ad innescare il terremoto della crisi d governo.

Ogni volta che si innesca un processo di instabilità amministrativa e di incertezza politica per l’immediato futuro, soprattutto se esistono delle scadenze economiche di non poco conto, la presentazione degli scenari più prossimi è quasi sempre dai toni apocalittici, rasentando veramente la pateticità di un ridicolo che più simile allo sconcio dei rapporti interpartitici rispetto ad una oscenità più generale che promana dai tanti scollamenti che il rapporto tra le istituzioni e cittadini vive da decenni e decenni.

E’ esattamente quello che sta accadendo in questi giorni. Sembra che, qualora mercoledì Draghi non dovesse ottenere la fiducia da parte del Parlamento, si aprirebbero per l’Italia le voragini di un abisso di cui non si può vedere il fondo: un salto nel buio, una incognita dalle dimensioni esponenziali tendenti all’infinito. Una necessaria paura da istillare nella popolazione per farle apprezzare l’inapprezzabile, per farle desiderare l’indesiderabile, per farle credere ancora una volta che chi siede al governo stia veramente facendo gli interessi dei ceti meno abbienti.

Questo è un giochetto collaudato, quasi un anti-galateo istituzionale e politico che serve ad alcuni partiti per richiamare la necessità della preservazione dello status quo, mentre ad altri è utile per una chiamata al raduno attorno al (o alla…) capopopolo di turno per una cambio ai vertici del governo attraverso una corsa elettorale fondata sul voto contro le proprie paure piuttosto che per le proprie convinzioni.

Se Mario Draghi avrà, invece, la fiducia delle Camere, allora il riposizionamento tattico (tutt’altro che strategico) delle varie forze politiche e dei loro presunti campi larghi, medi o piccoli potrà avviarsi ad una gradualità che, come presupposto fondamentale, avrà lo svolgersi dell’attuazione del PNRR e, quindi, la gara ad attribuirsi il maggiore sostegno al governo nel merito sarà la vuota concretezza dei dibattiti che vi si terranno intorno.

Non è un caso che l’esecutivo entri in crisi su un decreto che porta il nome “aiuti“: sono proprio i sostegni al variegato mondo lavoro e del disagio sociale a mandare in fibrillazione i rapporti tra i partiti che reggevano la maggioranza di unità nazionale. Non si è solamente puntato l’indice contro un solo schema attuativo dei fondi del piano europeo, contro una sola idea di Paese che rispondesse alle esigenze esclusive del padronato italiano.

Non c’è nemmeno nel Movimento 5 Stelle questa tensione classista, questa propensione un po’ socialdemocratica che alcuni vorrebbero attribuirgli facendo riferimento a categorie politico-sociali che i pentastellati non hanno mai e poi mai pensato nemmeno lontanamente di attribuirsi.

Semmai l’insieme delle rivendicazioni fatte proprie da Conte – il più istituzionalizzato dei Cinquestelle, almeno fino al tempo del suo secondo governo… – è parso di chiara impronta sociale in un deserto di proposte che ponessero a tutela gli interessi fondamentali dei lavoratori e del grande ginepraio della precarietà e della disoccupazione crescente.

Le proposte dei sindacati, la CGIL prima fra tutti, sono state lasciate dal governo in un limbo attendista, proprio alla vigilia dell’approvazione di un decreto che interviene su una vastità di questioni che dovrebbero anzitutto riguardare l’immediatissimo futuro dell’economia sociale del Paese.

La rottura dei Cinquestelle, per quanto tattico-pretestuosa sia, non è una solitaria corsa al massacro, un masochistico passaggio sotto le forche caudine della costruzione di una narrazione colpevolista facilmente appioppabile ai pentastellati. Il concorso di colpa esiste e non va sottaciuto: che poi, di questa situazione i grillini abbiano tentato di approfittare per ricomporsi, ricostituirsi come “movimento delle origini” e darsi quindi una nuova aura di verginità politica in vista delle prossime elezioni, è una evidenza talmente lapalissiana da sorprendere se dovesse non essere così lampante.

La responsabilità della crisi di governo, dunque, è ascrivibile a più soggetti in concomitanza e non è semplicisticamente riferibile soltanto ad un capriccio identitario ed elettoralistico del M5S. Questa fuga in avanti, questo tentare di sfuggire ad una analisi più compiuta delle circostanze, in cui matura una discrasia sostanziale dell’unità politica tenuta insieme da un tecnicismo carismatico dal taglio internazionale, non fa che dimostrare quanta inadeguatezza vi sia nelle correnti filo-istituzionali dei grandi come dei piccoli partiti del centro.

E’ proprio nel centro multiforme del panorama parlamentare italiano che si consuma la tragicommedia dell’opportunismo più lancinante.

Chi cerca una sponda nel confindustrialismo, chi pretende di rappresentare quel segmento della politica nazionale a cui possano fare riferimento i padroni moderni e tutto il loro indotto liberista, oggi è frazionato, disperso, diasporizzato in micro partiti che stanno provando la scalata al punto dirimente del possibile condizionamento di quelli che ancora sembrerebbero essere i “poli contrapposti“.

In realtà di contrapposizione vera ed evidente, tra centrodestra e centrosinistra è rimasta solo la partita sui diritti civili, su quelle forme sostanziali del dibattito che concernono gli aspetti di una vita su cui l’asse convintamente liberista tanto del sovranismo neonazi-onalista quanto dello pseudo progressismo democratico è pesantemente intervenuto, nel corso dei governi e delle legislature precedenti, con controriforme antisociali che presentano oggi il conto salatissimo in tema di tutela e difesa del mondo del lavoro e del non-lavoro.

Il governo Draghi, proprio sul piano del civilismo, ha ipotecato i diritti alle variabili indipendenti del mercato, ai capisaldi di una rotta capitalista che messo avanti a tutto la crisi economica per le grandi imprese, scambiandola volentieri con l’interesse generale della popolazione. La pandemia, la guerra stessa, sono fattori compenentranti l’azione di governo, necessariamente, perché l’Italia non è un mondo a parte rispetto al globo, come vorrebbero i sovranisti e anche una certa schiera di populisti a buon mercato.

Ma sta poi proprio all’esecutivo, al suo Presidente tecnico-politico, dirigere l’orientamento di quei fondi pubblici e scegliere, ad esempio, se vadano impiegati più per finanziare gli armamenti e sostenere la linea della NATO sull’aggressione russa all’Ucraina, oppure se debbano essere destinati ad un utilizzo più socialmente utile, più generale, comprendente i bisogni di una larghissima fascia di popolazione indigente.

Ecco, il governo, con unanimità di consensi, le grandi scelte che riguardavano la politica economica e quella estera le ha fatte senza bisogno di troppi dibattiti, sostenuto in questo dalla canea bellicista, dal fervore di un umanitarismo portato in punta di fucili e di cannoni di carri armati.

La crisi che oggi vive la politica italiana è posteriore a queste decisioni irrevocabili: se Draghi vivrà una seconda stagione governativa, non sarà solo per vivacchiare fino al voto. Nel caso decidesse di farsi da parte, l’ex banchiere europeo preparerà comunque la via, darà una chiara impronta a chi verrà dopo lui, affinché si possa adattare a tutte le stagioni un programma di governo che si adatti al maggior numero di forze parlamentari.

Le sfaccettature critiche, le posizioni ribelliste e tutti coloro che porranno dei dubbi in avvenire, saranno marginalizzati dall’accusa sempre pronta di non volere il bene della nazione, la sua capacità resiliente nel complicato scenario internazionale, il suo sviluppo economico rinnovato.

Il discorso di Draghi al Senato prima, e alla Camera poi, sarà probabilmente quasi tutto improntato ad un richiamo alla cifre, ai conti, alle necessità, ad un sano pragmatismo cui verrà chiesto di uniformarsi proprio per il bene comune. L’esatto contrario di quello che in realtà è. Ma, del resto, se tutto combaciasse perfettamente e non vi fossero problemi per le classi dirigenti di questo povero Paese, perché mai avrebbero chiamato un banchiere a fare la parte del consumato politico di mestiere?

MARCO SFERINI

19 luglio 2022

Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA

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