Tutto il giorno di ieri sui media rimbalzava una notizia sconvolgente: gli organizzatori del “cosiddetto “Running festival” (ma che razza di nome!) di Trieste avevano deciso, “per il loro bene,” di non invitare atleti africani alla mezza maratona in programma ai primi di maggio e di “prendere soltanto atleti europei”.
Mi era parso un altro terribile segno dei tempi, e avevo mandato qualche riga di sconsolato commento al giornale.
All’ultimo momento, dopo un paradossale tira e molla fra istituzioni, forze politiche, federazioni sportive e altri ancora (gli unici di cui non abbiamo sentito la voce sono gli atleti africani, non invitati neanche alla conversazione), gli organizzatori hanno fatto marcia indietro.
È una cosa buona – l’ipocrisia, diceva Umberto Eco, è un omaggio del vizio alla virtù – ma il fatto che ci si fosse pensato, e che fossero state addotte delle «ragioni», resta comunque un segnale a dir poco allarmante su cui riflettere. Perché?
Perché in questo nostro ipocrita paese, esclusioni e discriminazioni si praticano sempre e soltanto – cosi dichiarano – per fare il bene dei i discriminati e degli esclusi: il mancato invito agli atleti africani, che questa gara rischiavano di vincerla, era infatti dovuto alla benevola volontà di impedire «un mercimonio di atleti africani di altissimo valore, che vengono semplicemente sfruttati» da manager cinici e disonesti.
È sempre lo stesso meccanismo: gli atleti vengono sfruttati, quindi noi li difendiamo non facendoli lavorare; tanti africani soffrono per la povertà e le guerre, quindi «aiutiamoli a casa loro» e intanto chiudiamo i porti e non facciamoli arrivare. L’analogia la confermava il sottosegretario allo sport, il leghista Giancarlo Giorgetti che, pur prendendo le distanze dalla decisione degli organizzatori triestini, ha confermato che bisogna combattere «quelli che chiamo gli scafisti dello sport». Gli scafisti, lo sappiamo, sono la foglia di fico di chi dice di voler combattere mediatori e sfruttatori – gli scafisti dei migranti, i manager dei maratoneti – mentre si accanisce sulle loro vittime, lasciando a casa i corridori e lasciando annegare i migranti.
In realtà, comunque, la finta protezione agli sfruttati serve a proteggere altri. Spiegava l’«organizzatore» della maratona Gianfranco Carini: «Manager poco seri sfruttano questi atleti e li propongono a costi bassissimi e questo va a scapito della loro dignità di atleti e di esseri umani – ma anche a discapito di atleti italiani ed europei, che non possono essere ingaggiati perché hanno costi di mercato». Rieccoci, allora: i «negri» costano meno e portano via il lavoro ai nativi, come nelle campagne pugliesi e calabre. Proteggere la loro dignità serve a proteggere il valore di mercato degli autoctoni.
Che lo sport sia essenzialmente una merce, e che il mercato si regga essenzialmente sullo sfruttamento, non è più né un mistero né, temo, uno scandalo.
Lo sfruttamento degli atleti – ma non solo africani! – è una realtà. Ma se gli organizzatori triestini davvero ci tenevano proprio a combattere queste storture e a difendere i diritti degli atleti africani un modo ci sarebbe stato: pagare anche a loro, aggirando i loro sfruttatori, il giusto ingaggio «di mercato» che offrono a tutti gli altri. Così non sarebbero sfruttati (non più degli altri, cioè), e non potrebbero fare concorrenza a ribasso a nessuno.
Non mi pare che gli sia venuto in mente.
Eppure, in questo modo, non avrebbero salvato solo la dignità umana e i diritti economici degli africani, ma anche la dignità degli europei, a cui nessuno avrebbe potuto dire, a gara conclusa, che hanno vinto solo perché gli africani non c’erano.
ALESSANDRO PORTELLI
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