Dalle banche alla rabbia singola di un popolo da costruire

Ci sono due modi per parlare oggi delle banche: uno è denunciarne l’influenza che esercitano sull’impossibilità a determinare una quota di risparmio nel bilancio delle famiglie italiane; l’altro è...

Ci sono due modi per parlare oggi delle banche: uno è denunciarne l’influenza che esercitano sull’impossibilità a determinare una quota di risparmio nel bilancio delle famiglie italiane; l’altro è discutere del lavoro della Commissione parlamentare che si occupa delle interferenze tra politica e sistema del credito.
I sondaggisti fanno a gara a calcolare quanto possa influire elettoralmente avere sul groppone le ombre che si allungano dalle audizioni dei governatori, dei dirigenti degli istituti: si dice che almeno 1 punto in percentuale costerebbe al PD la riemersa vicenda che interessa Maria Elena Boschi.
Ma tutto questo è spettacolo già noto, mentre molto poco si sente dire di quanto determinante sia stato in questi anni l’aver stabilito, con decreti e leggi, un argine di protezione non del piccolo risparmio quanto bensì del grande investimento, quindi dei grandi possidenti che controllano le medesime banche.
Un decimo della popolazione italiana si trova in uno stato di povertà, quanto meno vicino a questa soglia che è sempre più difficile da determinare perché si allontanano sempre maggiormente i parametri vecchi di uno stile di vita dignitoso che non era minacciato costantemente da un degrado antisociale tale da costringere i nipoti ad essere mantenuti dai nonni.
Ormai la fase del mantenimento genitoriale rischia di essere sorpassata per quanto riguarda i figli perché sono le stesse seconde generazioni ad aver bisogno dei loro anziani papà e mamme: l’ultimo argine del vecchio stato-sociale che è caduto – in trent’anni di berlusconismo e di governi del centrosinistra, più o meno tecnici – sotto la scure di un liberismo all’inizio irriconoscibile e spacciato come “modernità” e oggi piagato da tutta una serie di non occultabili storture che hanno condotto il vecchio “ceto medio” ad essere molto meno medio e molto più proletario dei proletari di un tempo.
Dieci milioni di italiani, dunque hanno scordato la parola “risparmio”: ancora soltanto, appunto, trenta anni fa il risparmio per un operaio della Fiat era faticoso ma possibile. Del salario avanzava qualcosa. Oggi, come bene aveva sintetizzato un manifesto di Rifondazione Comunista, “a fine salario avanza ancora troppo mese”.
Dunque la crisi economica ha avuto un risvolto chiaro, innegabile, incontestabile: è stata fatta pagare dai governi ultimi ai cittadini che già da molto tempo avevano meno, sempre meno e che sono finiti per dimenticare persino la trappola delle rate per acquistare una macchina nuova o un semplice scooter per il figlio…
Oggi la difficoltà sta nel comperare i libri di scuola ai propri ragazzi, pur mantenendo fermi alcuni “status – symbol” del momento: senza un telefonino alla moda, uno smartphone, non si può far parte della società civile, non si sarebbe accettati nella medesima e si verrebbe esclusi, ostracizzati e indicati come “inferiori”.
La povertà, dunque, è ancora, è sempre uno stigma. E non dovrebbe mai esserlo perché non deriva da una colpa, ma da una situazione indotta da chi è veramente colpevole: il ricco, il padrone, il cosiddetto “imprenditore”. Quindi coloro che si approfittano dei più deboli per accumulare profitti e continuare a vivere beatamente mentre decine di milioni di persone scendono le scale della povertà che avanza.
E’ evidente che nessun mezzo di comunicazione di massa porrà mai la questione dell’impoverimento sociale in questi termini: vorrebbe dire istillare il dubbio in una massa incosciente, profondamente anestetizzata dalle bellezze del mercato e dalla moderna evoluzione tecnologica di un benessere irraggiungibile, che esiste un problema che non è la “natura delle cose”. Non esiste la “natura delle cose”, il “fato”. Esistono condizioni di sistema che vengono mantenute da chi detiene il potere economico e lo esercita attraverso precisi rappresentanti politici.
La televisione, la radio (in un certo qual modo…) e Internet ci mostreranno sempre gli inciampi del sistema, alcune imperfezioni da correggere con le tanto adorate “riforme”…
Più o meno, da angolazioni differenti, tutte le forze politiche che hanno preso posizione nell’agone pre-elettorale si dedicano alla “governabilità” di questo sistema: anche quelle che si definiscono libere, eguali e di sinistra.
Un sistema che va messo in discussione radicalmente, senza se e senza ma perché non c’è soluzione di appello per esso; perché c’è solo una via per migliorare le condizioni antisociali di una società di deboli, inermi, rassegnati e inconcludenti singole rabbie che non trovano il modo per coalizzarsi: capovolgere ciò che oggi c’è e si autoalimenta attraverso il potere. Un potere che deve passare dai padroni, dai finanzieri al popolo.
Cancelliamo l’enfasi, manteniamo i concetti. Il potere popolare è la sola sinistra possibile: antiliberista, anticapitalista e comunista possibile. Tutto il resto non è noia ma sterile conformismo.

MARCO SFERINI

16 dicembre 2017

foto tratta da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli