Buona scuola (si può ancora dire?)

La ripartenza dell’anno scolastico mette tutti davanti al problema della diffusione sistematica del sapere agli studenti in condizioni non certo agevoli. Non mi riferisco soltanto alla situazione generale degli...

La ripartenza dell’anno scolastico mette tutti davanti al problema della diffusione sistematica del sapere agli studenti in condizioni non certo agevoli. Non mi riferisco soltanto alla situazione generale degli ambienti in cui studiano gli alunni o alla qualità espressa dai programmi ministeriali per l’apprendimento delle materie.
Non è soltanto, dunque, una questione di sostanza e di forma, è anche e soprattutto una questione che riguarda il clima sociale, politico ed economico in cui viviamo noi adulti e, pertanto, in cui si trovano a vivere i giovanissimi e i ragazzi che affrontano la scuola e dove portano tutti i malesseri e i difetti di un “villaggio globale” fatto di ansie, pregiudizi e paure che ogni santo giorno vengono propinate dai grandi mezzi di comunicazione che, così facendo, contribuiscono largamente a formare la cosiddetta “opinione pubblica”.
Poi tutto viene superato dal problema dell’utilizzo del cellulare in classe da parte delle ragazze e dei ragazzi: una circolare ministeriale lo consente e disciplina questo uso. Sarebbe “formativo” secondo il ministro dell’istruzione. E’ tutto opinabile, ovviamente, e non è questo il “problema dei problemi”.
Semmai, il dilemma è con che tipo di approccio individuale questi ragazzi oggi siedono nelle aule e guardano l’istruzione: come la percepiscono, come la vivono e che opportunità per loro è, ammesso che lo sia, studiare e conoscere.
Ascoltare soprattutto gli adolescenti è importante per avere una bussola in tal senso. Le moltissime interviste televisive fatte in questi giorni ci parlano più che altro di una neanche tanto “calma rassegnazione” che investe un po’ tutti gli ambiti di vita: i tredicenni si rassegnano a studiare, e forse questa è la più umana, naturale e giustificata rassegnazione; i futuri maturandi invece la gettano nella prospettiva del proiettarsi già in un mondo universitario dove non conosceranno altro che spese insostenibili, sforzi enormi delle famiglie per fargliele affrontare e un futuro incertissimo. Nessuno può veramente affermare che avrà un lavoro una volta terminato il ciclo di studi.
Anni e anni or sono si calcolava che la percentuale di laureati che riusciva a trovare immediatamente o quasi un’occupazione dopo la proclamazione a “dottore” era intorno al 3%.
Oggi questa percentuale è leggermente salita e quindi, forse, dovremmo essere tutti un poco più contenti, dire e dirci che la crisi economica quindi sta passando… invece i dati in risalita sono dovuti alla mortificazione di quelle lauree e alla ricerca di un lavoro precarissimo, magari di tre mesi in tre mesi rinnovato contrattualmente in un call center… in uno di quei luoghi dove impari a memoria un copione da recitare alle persone a cui telefoni e che spesso ti trattano pure male perché non ne possono davvero più di essere vessati ogni giorno da chiamate che ti propongono offerte su offerte…
I giovanissimi hanno ancora alcuni anni davanti a loro per scoprire che, se non vi sarà una inversione di chiara tendenza sociale, questa economia, questo mondo economico non darà nemmeno a loro la chiarezza di una quanto meno vaga speranza di poter vivere secondo il percorso di studi che hanno scelto.
Un tempo c’era chi sceglieva di studiare per conoscere e finiva a fare, nel migliore dei casi, l’insegnante a sua volta e c’era poi chi studiava soltanto (mi si passi il “soltanto”…) per avere un lavoro sicuro.
La scuola da formativa è diventata “informativa” e “informatica” ma non ha aumentato le potenzialità proprie e tanto meno quelle della giovane popolazione italiana. Invece di estendere la conoscenza a quelli che sono giovani cittadini oggi e futura “classe dirigente” domani (dai comuni fino allo Stato), è stata trasformata in una protesi del privatismo, di una filosofia tutta aziendale con presidi – manager, con dirigenti che pensano in qualche modo ad una specie di “profitto”.
Insomma, nonostante queste mutazioni genetiche del ruolo della scuola della Repubblica, vorrei anche io augurare ai giovani che in tutta questa settimana torneranno sui banchi di sudato lavoro mentale un buon inizio: che sia un inizio che gli permetta di sviluppare un sano senso critico, una capacità di dubitare che metta in crisi la sacralità dei princìpi ministeriali e di Stato. Soprattutto che possano incontrare la voglia di ribellarsi come in quel meraviglioso film che ha per titolo “L’attimo fuggente”. Pensare con la propria testa è un esercizio complicatissimo, difficile ma è possibile: cento e cento persone verranno sempre a dirci che bisogna “rispettare le regole”. Sì, quelle che funzionano e che, quindi, servono ad accrescere il bene comune.
Tutto il resto è discutibile, interpretabile e anche passibile di disobbedienza che, già lo proclamava don Lorenzo Milani, è una virtù, visto che l’obbedienza ha cessato d’esserlo… o e è tornata ad esserlo?

MARCO SFERINI

12 settembre 2017

foto tratta da Pixabay

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