Attrazione fatale. Sinistra Italiana rinuncia al campo progressista

Sarebbe veramente ingiusto, perché molto poco obiettivo, dare tutta la responsabilità del futuro del progressismo in Italia agli iscritti di Sinistra Italiana che si dovranno esprimere sulla linea tracciata...
Il patto siglato tra PD, Europa Verde e Sinistra Italiana

Sarebbe veramente ingiusto, perché molto poco obiettivo, dare tutta la responsabilità del futuro del progressismo in Italia agli iscritti di Sinistra Italiana che si dovranno esprimere sulla linea tracciata da Fratoianni (alleanza col PD nei collegi uninominali e “autonomia programmatica” rispetto al resto della coalizione) entro poche ore.

Sarebbe ingiusto, un po’ perché, come in tutti i compromessi che si devono cercare, una certa percentuale di ambiguità deve rimanere quanto meno nel testo scritto, così da ottenere il maggiore consenso possibile alla proposta messa in essere; ed un po’ perché, realmente, se qualche colpa esiste, in merito a tutti questi pastrocchi che a sinistra si generano ogni volta che ci si predispone ad un passaggio elettorale, ebbene questa non è certo dei tesserati ad una forza politica, bensì dei vertici che devono avere un grado di intuizione maggiore, trovandosi in una posizione privilegiata rispetto a quella della base.

La geometria variabile della politica implica che non si possano stravolgere le regole della trigonometria delle alleanze: princìpi, valori, idee e care vecchie ideologie finiscono, nonostante l’anatema grillino d’un tempo, con l’essere sostanza e non semplice forma. Tranne per quelli che creano soltanto dei contenitori da riempire con ogni sorta di promessa, in particolare se si tratta dell’impromettibile, del fantasioso che viene spacciato come finanza creativa una volta, estrosità istituzionale un’altra.

C’è una novità – si fa per dire – nel documento finale dell’assemblea nazionale di Sinistra Italiana; una richiesta che, a onor del vero, è sempre stata parte del pacchetto elettorale proposto tanto da Fratoianni quanto da Bonelli: la riproposizione dei Cinquestelle come forza necessaria ad accreditare alla coalizione un minimo di speranza di prevalere sulle destre sovraniste.

Ad essere sinceri, le conditio sine qua non sono veramente tante e il vento se le porta… Calenda le ha poste non per primo, ma siccome i sondaggi parlano abbastanza chiaro, il PD e Letta hanno scelto di far prevalere la linea moderata di centro, dando l’ultimo colpo mortale a quel centrosinistra che aveva perso da tempo la sua originaria fisionomia di stampo prodiano.

Fratoianni e Bonelli non ne avevano poste all’inizio di questo balletto delle alleanze, dei rapporti incestuosi con una legge elettorale perversa e palesemente vicina all’incostituzionalità e, pur valendo circa il 4% di un elettorato altamente disilluso, ma disponibile ancora a dare fiducia a quel che resta della sinistra moderata, sono stati surclassati dal coagulo liberista che ha teorizzato l'”agenda Draghi” come fulcro attorno a cui imperniare il patto centrista.

Conventio ad excludendum per Conte e quello che è parso essere un Movimento 5 Stelle troppo spostato a sinistra, troppo progressista, imputabile totalmente della caduta di un governo che nessuno voleva più veramente tenere in piedi e che nemmeno il Presidente del Consiglio era disposto a far sopravvivere fino al 2023 con annesse e connesse le lotte intestine tra le forze politiche e le schermaglie quotidiane che facevano fibrillare e sobbalzare il tavolo tondo di Palazzo Chigi praticamente senza soluzione di continuità.

La partita non riguardava, e tutt’ora non riguarda, soltanto uno schema di mediocre tatticismo attraverso cui dare soluzione alle molte problematiche che la politica italiana di centro e di sinistra si ritrova ad affrontare da più di un lustro a questa parte e, certamente, dall’inizio della pandemia in poi.

La partita concerneva soprattutto la riformulazione complessiva della rappresentanza degli interessi sociali da un lato e di quelli industriali dall’altro: il capitalismo italiano stava e sta cercando nuovi interlocutori pur avendo davanti forze quasi sempre uguali a sé stesse.

L’anno e mezzo di draghismo applicato al dramma economico italiano, ha aperto nuove strade in questo senso e ha fatto venire fuori una gran voglia di centro, soprattutto dopo che si sono sgonfiate le bolle populiste pentastellate da un lato e quelle sovraniste salviniane dall’altro. Sono rimasti in campo non gli opposti, a questo punto, ma le ali estreme della destra meloniana da una parte e una vaga proposta di “campo largo” che, altro non era, se non il tentativo di mantenere in vita un equilibrio liberal-progressista che tenesse testa agli estremismi neonazi-onalisti divisi tra maggioranza ed opposizione.

La fine del governo Draghi ha dato una bella rimescolata a tutte queste carte e ha messo il centrosinistra davanti ad un problema enorme: mentre la destra si ricompattava energicamente e senza troppi infingimenti e formalistici salamelecchi a favore di telecamera e di post sui social, mentre Calenda e Bonino, con la iniziale sponda renziana, avanzavano la proposta della formazione di un’area moderata per i moderati e si facevano cavalieri serventi della continuazione del draghismo nella politica nazionale, il PD rimaneva col cerino acceso in mano.

Da un lato le spinte alla formazione di una coalizione il più ampia possibile, sul modello della vecchia “Unione“; dall’altro l’oggettiva necessità di una chiusura netta nei confronti di Conte e dei Cinquestelle per poter affermare, soprattutto davanti all’astro nascente del neocentrismo liberista calendiano, di essere, ugualmente ad Azione e +Europa, degni di rivendicare i successi antisociali del governo di Draghi.

La sinistra parlamentare, fatta di pochi seggi e tanta invisibilità, ha dovuto quindi guardarsi stranita e cercare di risolvere l’enigmatico trittico kantiano: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, in che cosa posso sperare? Ci sarebbe voluto proprio il filosofo di Königsberg per trovare una critica efficace dell’irragionevolezza impura di tutti questi veti e controveti che si sono affastellati nel corso delle settimane e che ancora non sono risolti per niente.

Fratoianni e Bonelli hanno dato per scontato troppo presto che il PD riuscisse a calmare i bollenti spiriti di Calenda e soci, ritenendo che, tutto sommato, visti i precedenti, qualunque alleanza era possibile: se, in fondo, un po’ di tempo fa, sono riusciti a stare nella stessa coalizione Mastella e Bertinotti, poteva sembrare anche concretizzabilissimo il fronte repubblicano da Azione a Sinistra Italiana.

I paragoni sono sempre rischiosi, ma giusto per dare l’idea di quello che ci troviamo davanti, sono calzanti e ci permettono di mettere in evidenza tutta la stentorea speciosità degli archetipi che ci andiamo formando nella mente e delle certezze che certi alleati ci danno quando siamo in Parlamento e che si trasformano nell’esatto opposto quando davanti c’è la ghigliottina del voto.

Viene da pensare, dire e scrivere che, per fortuna, noi che sosteniamo Unione Popolare, per la nostra estraneità radicale non solo all'”agenda Draghi” ma al perimetro stesso di una coalizione che ne contenga qualche pure involontario frammento, siamo fortunatamente al riparo dal ricorrere a consultare gli iscritti di Rifondazione Comunista e Potere al popolo per sapere cosa ne penserebbero di una vexata quaestio come quella che devono sbrogliare Sinistra Italiana e Verdi in questo momento.

Ripetiamolo: se domani la base delle due forze decidesse per il SI’ alla linea di Fratoianni e quindi all’accordo col PD, non sarebbe più responsabile di una divisione della sinistra rispetto ad una scelta che preferisse il NO.

E questo non perché SI’ e NO si equivalgono. Tutt’altro. Ma si tratterebbe di una scelta ipotecata alla minaccia dell’utilità del voto, dell’utilità della presenza di un nucleo progressista in Parlamento legato elettoralmente nell’uninominale al neocentrismo e apparentemente svincolato da tutto ciò nella parte proporzionale. Salvo ricordarsi il gioco da baro del Rosatellum che non permette quell’altro obbrobrio che è il voto disgiunto e che, per lo meno in questo caso, consentirebbe di salvare un po’ capra e cavoli…

Adesso è possibile che non serva nemmeno più la consultazione della base: si tratterebbe di un ratifica del “già deciso”, con tanto di conferenza stampa ufficiale nella sede del PD, benedicente Letta in persona.

Tuttavia rimane un disagio comprensibilissimo, di un terzo di Sinistra Italiana che aveva proposto quello che da settimane andiamo dicendo: esistevano le coordinate e i presupposti per dare vita ad un polo progressista vero, formato dai Cinquestelle, da SI, dai Verdi e da Unione Popolare. Era possibile aprire un varco, cercare uno spunto dall’esperienza francese, abbandonando tanto le velleità di governo quanto i settarismi sterili di un isolazionismo purista che non ha mai pagato in termini di vicinanza alla classe lavoratrice e a tutti i deboli di questo Paese.

Si è preferito ancora una volta obbedire alla legge non scritta di una presuntuosa utilità del voto per preservare un orticello e non pensare, non oggi ma un domani, ad un superamento di tutte le attuali formazioni per l’edificazione di un nuovo partito della sinistra antiliberista e anticapitalista che si affiancasse ad un soggetto di progressismo moderato come quello del M5S di nuovo modello contiano.

La responsabilità di tutto questo non sarà delle iscritte e degli iscritti. Soprattutto se non saranno chiamati al voto. E se lo saranno, assolveteli ancor prima di giudicarli, perché le colpe sono altrove: la geometria variabile della politica italiana ha colpito ancora…

MARCO SFERINI

7 agosto 2022

foto: screenshot tv

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