La trattativa tra il Ros e la mafia attraverso Vito Ciancimino ci fu e puntava a favorire la parte di Cosa nostra contraria alle stragi. Ci fu anche, proprio per questo obiettivo, la mancata cattura di Bernardo Provenzano, interprete di una linea meno dura di contrapposizione allo stato rispetto a Salvatore Riina.

Ma non ci fu la minaccia a un corpo politico dello stato né da parte dei carabinieri, che con la loro comunque «improvvida» iniziativa volevano al contrario «sterilizzare» l’insidia mafiosa, né in definitiva da parte dei mafiosi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà attraverso Marcello Dell’Utri, perché «non c’è la prova» che quest’ultimo abbia effettivamente veicolato la minaccia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Bagarella, Brusca e Cinà dunque sono colpevoli soltanto di «tentata» minaccia.

I tre mafiosi – Bagarella e Cinà in carcere all’ergastolo, Brusca libero in sorveglianza speciale – sono infatti gli unici che si sono visti confermare (ridotta) la condanna, quando a settembre scorso la seconda sezione della Corte d’assise di appello di Palermo aveva rovesciato la sentenza di prima grado sulla trattativa stato mafia. Assolvendo gli alti ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore Dell’Utri. Ieri sono state pubblicate le motivazioni di quella sentenza, quasi tremila pagine per stendere le quali sono state necessarie due proroghe dei termini.

A oltre dieci mesi dal dispositivo, dunque, si può adesso leggere nelle motivazioni che il disegno del Ros «era quello di insinuarsi in una spaccatura all’interno di Cosa nostra per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che per quanto sempre criminale appariva tuttavia ed era meno pericoloso per la sicurezza dello stato». Negoziato che fu perfettamente inteso da Ciancimino «nei termini in cui la proposta era stata formulata»: l’offerta non era a Riina, ma ai suoi nemici interni.

E non si può dire, come nella sentenza di primo grado giudicata «incongruente», che offrire a Cosa nostra la disponibilità dello stato a trattare abbia rafforzato il potere di minaccia dei mafiosi, perché «eventuali concessioni a favore dei mafiosi dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata, giustamente ritenuta soccombente fino a quando al comando fosse rimasto Salvatore Riina».

Secondo l’appello, dunque, «se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste».

In questo contesto, la Corte inserisce anche la mancata perquisizione del covo di Riina in seguito alla sua cattura. «Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano», scrive, escludendo così l’ipotesi di favoreggiamento. Ma lasciando ai mafiosi il tempo di ripulire il covo, Mori «intese lanciare un segnale di bona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato».

Quanto al ruolo di Dell’Utri, per l’appello è più che provato che si impegnò per ottenere il sostegno della mafia per Forza Italia alle elezioni del 1994, ma «al di là del pieno coinvolgimento nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita)- sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello, non si ha prova che a questa fase abbia fatto seguito la comunicazione della minaccia a Berlusconi per ottenere l’adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri nella precedente campagna elettorale».

In un altro passaggio importante, la Corte nega la tesi originaria della procura di Palermo, accolta in primo grado, per la quale la trattativa accelerò la strage di via D’Amelio. Sostiene invece che, venuto Riina a conoscenza che «uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare», la notizia «non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani», semmai è possibile che la strage «possa avere trovato origine nell’interessamento di Borsellino al rapporto mafia e appalti».

Infine le motivazioni definiscono «ingeneroso» e «fuorviante», frutto di «un errore di sintassi giuridica» l’aver ipotizzato «anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali come il ministro Conso o il presidente Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa».

ANDREA FABOZZI

da il manifesto.it

foto: screenshot