Le stime preliminari relative all’incremento dei prezzi nel mese di ottobre, rese note dall’Istat ieri, certificano un balzo dell’inflazione su base annua all’11,9% rispetto all’8,9% di settembre.

Sembra di essere tornati a quarant’anni fa,ai tempi della “Milano da bere”. Solo in quel caso, nel giugno del 1983, abbiamo registrato un aumento (+13%) su base annua superiore all’attuale. Ma ciò che è peggio è che il peso maggiore si scarica sul carrello della spesa, sui consumi popolari ineliminabili. Complessivamente su base annua accelerano i prezzi dei beni (da +12,5% a +17,9%), mentre rallentano anche se di poco quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (su base annua dal +3,9% al +3,7%).

Quindi il differenziale inflazionistico negativo fra questi ultimi e i prezzi dei beni si è sensibilmente allargato (dal -8,6 di settembre a -14,2 punti percentuali). Senza abbondare nelle cifre è chiaro che l’inflazione pesa assai di più sui redditi bassi. Per una famiglia composta da due coniugi con due figli la sberla può arrivare a 4.059 euro nell’anno, di cui almeno un quarto è dovuto alle spese alimentari, ove spicca il salto micidiale del prezzo delle verdure.

Questi aumenti riducono il margine del risparmio, come emerge da una recente indagine Acri-Ipsos, da cui risulta che anche una spesa imprevista di 10mila euro – curiosamente il nuovo limite proposto per il contante – può creare seri problemi a una famiglia. Se ce ne fosse bisogno, l’Istat ci ricorda che le retribuzioni non tengono il passo dell’aumento inflazionistico.

Nei primi nove mesi dell’anno il divario tra la dinamica dei prezzi e quella delle retribuzioni contrattuali è pari a 6,6 punti percentuali, quindi il leggero aumento della retribuzione oraria, pari all’1%, resta comunque al di sotto del livello dell’inflazione. Perciò continua la corsa verso il basso dei salari italiani.

Per invertirla o quantomeno per fermarla servirebbe una vigorosa ripresa del conflitto sociale a tutti i livelli per innalzare i redditi delle classi lavoratrici e aggredire la crescente povertà, nonché una vera riforma fiscale in senso progressivo. Bisogna capovolgere quella trasmissione di ricchezza verso la finanza, cui l’incremento dell’inflazione è funzionale, come ci spiegava Augusto Graziani negli anni Settanta.

Il che comporta non solo la difesa e l’ampliamento del reddito di cittadinanza, l’introduzione per legge di un salario minimo orario, la lotta per aumenti contrattuali, l’incremento delle pensioni a partire dalle più basse, ma tutto un insieme di politiche economiche a livello nazionale ed europeo. Ovvero quella che potrebbe essere l’agenda di un’opposizione al governo delle destre. Il rilancio della politica dei redditi, come ha chiesto il segretario della Cisl, appare una stanca ripetizione di passati fallimenti.

Le cause esogene e dipendenti dalla guerra dell’attuale inflazione spostano l’asse dello scontro a livello internazionale. Lo aveva compreso tanti anni fa Salvatore Biasco, quando, in suo notevole libro del 1979, agli albori di una robusta fase della globalizzazione, dedicato all’incremento dei prezzi nei paesi capitalistici industrializzati e interdipendenti, scriveva che l’inflazione «è diventata in questo modo la forza condizionante dei processi dell’economia mondiale».

Lagarde, alzando per la seconda volta consecutiva i tassi di 75 punti – cosa mai avvenuta nell’Eurozona – ha chiuso la fase espansiva della politica monetaria. Ma non è certo la quantità di liquidità in circolazione la causa dell’inflazione. La Bce è alla ricerca del tasso «naturale», ovvero quello che di per sé non dovrebbe influire né in modo espansivo né in quello restrittivo sull’economia reale.

Ma procede in modo random, riunione per riunione, dicendo apertamente che le indicazioni prospettiche (la forward guidance) non sarebbero utili. Gli operatori finanziari lo chiamano «effetto Delfi», quello dell’oracolo della Grecia antica che può essere interpretato a piacere, così come appunto le dichiarazioni della presidente della Bce.

Con la conseguenza che alla instabilità di fondo dell’economia finanziaria, descrittaci da Hyman Minsky, viene a sommarsi il movimento ondulatorio, umorale e sempre rapace dei grandi operatori finanziari. La Bce in versione Pizia di Delfi cessa quindi di funzionare come guida dei mercati, seppure indipendente dal potere politico.

Nel momento in cui vuole ribadire il governo dell’economia attraverso la politica monetaria, finisce in realtà per accompagnare le scelte del mercato. In questo quadro l’inflazione può tenere per mano la stagnazione e guidarci attraverso la stagflazione a una recessione di non breve durata. E così si consuma la parabola del draghismo di cui la «Melonomics» a livello macro vorrebbe essere la prosecuzione.

ALFONSO GIANNI

da il manifesto.it

Foto di Michael Burrows