Alla relazione sullo stato della giustizia con la quale da quasi vent’anni il ministro guardasigilli inaugura l’anno giudiziario, Carlo Nordio è arrivato ieri avendo già abbondantemente provveduto in interviste, dichiarazioni e audizioni parlamentari a dispensare i suoi ampi propositi. In termini in realtà ancora molto generici, come ha confermato ai senatori ieri mattina affermando «il fermo proposito di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale».

Ascoltando lui e ancor di più ascoltando la sua maggioranza è apparso chiaro che il ministro è al centro di due spinte per nulla conciliabili. Forza Italia gli chiede di passare dalle alate professioni di garantismo a provvedimenti concreti – nei quali peraltro poco si distingue l’interesse generale da quello di partito -, Lega e Fratelli d’Italia al contrario ne esaltano il tratto di uomo d’ordine che deve abolire il reato di tortura e rimettere in riga una magistratura troppo politicizzata.

Probabilmente Nordio è il volto pubblico perfetto di queste contraddizioni, capace com’è di tenere insieme, in una nebbia di citazioni erudite, slanci teorici inappuntabili e mosse concrete all’insegna della solita giustizia di classe.

Così si è intestardito in una battaglia contro l’eccesso di intercettazioni mentre le autorizzava per decreto persino contro i rave, ha motteggiato sull’abuso del penale mentre esordiva con la creazione di un ennesimo reato «per dare un segnale», ha distillato perle su diritti e garanzie prestandosi al trasferimento, di nuovo per decreto, del potere di sequestro delle navi delle Ong dall’autorità giudiziaria a quella governativa prefettizia, si è impegnato anche con gesti simbolici per le carceri e poi ha acconsentito al taglio delle risorse in legge di bilancio per penitenziari e agenti di custodia.

In questa confusione la disputa sulla giustizia è il terreno ideale per dispute assai poco concrete. Si litiga sulle etichette, o magari si va anche d’accordo, come ha fatto ieri il partito di Renzi e Calenda che ha avuto gioco facile a posizionarsi dalla parte di un astratto garantismo. La sua risoluzione, che impegna il governo ad andare avanti con quanti «condividono l’obiettivo di un’azione riformatrice di matrice liberale e garantista» è stata accolta e approvata dalla destra, assieme a quella più scarna della maggioranza.

L’invito a Nordio a essere conseguente poco prima era arrivato in termini anche più perentori dal senatore di Forza Italia Zanettin: «La invitiamo, signor ministro, a cominciare a portare in parlamento le riforme che lei finora ha così magistralmente annunciato. Ora è necessario che comincino ad arrivare i testi». Perché questo accada realmente, però, bisognerebbe che le opposte spinte di maggioranza trovassero un punto di convergenza che al momento non c’è.

Sulle intercettazioni – «annosa questione», ha meditato il ministro, prima di citare sull’argomento sia Shakespeare che (sarà contento Sangiuliano) Dante – Nordio in imbarazzo per le dichiarazioni dei pm che hanno dato la caccia a Messina Denaro ascoltando i colloqui dei suoi parenti, ha dovuto una spiegazione: «Quelle per mafia e terrorismo non saranno toccate».

Lui stesso, quando aveva detto in tv che «la mafia non parla al telefono», non intendeva demolire le intercettazioni «preventive», che servono a indagare, ma quelle «giudiziarie» che, sostiene, non «servono a ricercare una prova ma si vuole che siano esse stesse una prova» e che «coinvolgono persone non indagate». La confusione è grande, visto che evidentemente questa differenza riguarda l’utilizzo delle intercettazioni più che la loro attivazione.

Soprattutto riguarda non l’utilizzo ma la diffusione sui media. Che può certamente essere illecita, ma la riforma c’è già stata (Orlando) e si tratterebbe di applicarla seriamente e verificarne gli esiti. Però in replica il ministro ha voluto tenere il punto. Sulle intercettazioni, ha detto, «non vacilleremo e andremo fino in fondo». Si riferiva però solo (citando «il grande Richelieu») alle intercettazioni fatte con i trojan, sulle quali problemi sono emersi anche nelle audizioni in commissione.

Altri impegni precisi per la verità il ministro non li ha presi, se non quello di rispettare – mancherebbe – le scadenze del Pnrr che prevede forti contrazioni dei tempi dei processi sia nel civile (-40%) che nel penale (-25%) attraverso interventi sull’organizzazione e non sull’ordinamento giudiziario.

Impossibile, almeno dalla relazione in aula, capire in concreto le intenzioni, pure tutte rilanciate (se non ieri, l’altro ieri), su abuso d’ufficio, prescrizione e procedibilità d’ufficio per i reati minori quando aggravati dal metodo mafioso. Ribadita infine l’intenzione con la quale il ministro si presentò al giuramento al Quirinale di riformare l’impianto complessivo del codice penale, «ma nel lungo periodo» (nel quale «saremo tutti morti», qui però la citazione di Keynes è mancata).

ANDREA FABOZZI

da il manifesto.it

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