Tradizione e innovazione nell’unità delle lotte in Francia

Lo spontaneismo si addice ai movimenti dal basso, ad una irregolarità salvifica delle lotte che, a volte, sfuggono alla dirigenza politica e sindacale e prendono strade impreviste e, per...

Lo spontaneismo si addice ai movimenti dal basso, ad una irregolarità salvifica delle lotte che, a volte, sfuggono alla dirigenza politica e sindacale e prendono strade impreviste e, per questo, dimostrano una capacità di incidenza ancora maggiore nei confronti dei governi e degli apparati di potere che difendono controriforme antisociali evidentissime a tutte le classi, a tutti i ceti, alla stragrande maggioranza della popolazione.

La Francia, a questo proposito, insegna: la saldatura tra il grande sollevamento contro la legge, appena approvata dal Senato della République, sull’innalzamento dell’età pensionabile, ostinatamente voluta dal governo macronista e dai settori confindustriali e borghesi, e lo sciopero transfemminista dell’8 marzo, ci dicono della possibilità concreta e, soprattutto, della necessità di una saldatura delle lotte, di una ricomposizione decisa tra diritti sociali e diritti civili.

Il cambiamento sociale, del resto, è fittizio se non si porta appresso un mutamento anche culturale, civico e civile: rovesciando i termini, ogni campagna di affermazione di nuovi diritti in questo senso è puramente formale se non contribuisce a determinare un capovolgimento dei rapporti di forza in seno ad una società in cui il liberismo si esprime sempre con maggiore virulenza attraverso gli attacchi alle fondamenta del vecchio “stato sociale” occidentalmente inteso.

Non stupisce che sia proprio dalla Francia che riemerga una protesta così ampia, unitaria sia sul piano politico sia su quello sindacale: non è soltanto un fatto che rimanda alla grande tradizione rivoluzionaria, storicamente intesa e data dalla Bastiglia alla Comune; ma è, in primis, un il prodotto di mutamenti tutti attuali, riconducibili ad una difesa che mette insieme la laicità dello Stato con il dovere dello stesso di essere res publica, di occuparsi quindi della tutela delle classi più indigenti e deboli.

L’inconografia più recente ci ha sempre mostrato nelle banlieue la linea del fronte di una nuova lotta di classe, di un nuovo multietnicismo e multiculturalismo di cui, del resto, la Francia è sempre stata portatrice per il suo passato (mai del tutto passato…) coloniale e al ruolo internazionale che ha esercitato prima dell’egemonia globale britannica e statunitense.

La sinistra francese, poi, ha saputo riflettere sui mutamenti intercorsi negli ultimi decenni: proprio quelli in cui il capitalismo riusciva a dividere i lavoratori, parcellizzarne i contratti, precarizzarli all’ennesima potenza, fare strame dei loro diritti nel nome ovvio di una narrazione tutta dettata e condotta nel solco della modernizzazione, della necessità delle privatizzazioni e quindi, della stabilizzazione di una contro-società fondata sul profitto piuttosto che sul benessere comune.

La fine della grandezza mitterandiana del Partito Socialista non ha determinato lo scombinamento e la diaspora del voto fino alla consunzione della sinistra stessa. Seppure in difficoltà e messa sempre davanti a scelte non facili alle presidenziali, la guache si è mantenuta in equilibrio tra l’europeismo necessario e la lotta di classe inarchiviabile, indimenticabile, improcrastinabile.

A differenza dell’Italia, la sinistra di alternativa, antiliberista e decisamente critica nei confronti del capitalismo, ha risalito la china uscendo da un minoritarismo cui in molti l’avrebbero voluta cacciare e ha mostrato tutti i limiti di una classe dirigente gollista che era impreparata a gestire le nuove opportunità di un mercato che si fondava sull’asse franco-tedesco e che, quindi, poneva al paese il ripensamento anche storico dei rapporti tra Parigi e Berlino.

Gli stessi sommovimenti incontrollabili dei gilet jaune, ricordavano, per costanza nella riproposizione settimanale delle proteste, quelle dei trasporti e gli scioperi che paralizzarono l’Esagono per molte settimane e molti mesi, ancora prima che la crisi verticale tanto della sinistra socialista quanto della destra gollista divenisse strutturale e determinasse un vero e proprio mutamento di “regime“.

Il macronismo, erede di questo disagio della moderna borghesia francese, figlio di un rampantismo tutto economico e per niente sociale, è divenuto il centro di gravità permanente per qualche anno, nell’attesa che il quadro complesso della società potesse stabilizzarsi dietro le promesse di una riappacificazione tra le classi, di un recupero dei diritti sociali e di quelli civili insieme.

Poi l’incantesimo si è rotto, imperversante una destra xenofoba, razzista e neonazi-onalista che ha soffiato sul fuoco di quel disagio sociale che, invece di diminuire, cresceva a dismisura. Ma le fierezza della conservazione delle libertà fondamentali della Nazione ha impedito – a differenza della nostra Italia – alla destra estrema, antieuropea, anticomunista e decisamente illiberale di prendere il sopravvento.

Un pericolo per ora scampato, ma niente affatto messo in archivio.

L’importanza dei movimenti di massa, insieme alla mobilitazione organizzata dai sindacati per difendere il diritto delle e dei francesi ad andare in pensione a 62 e non a 64 anni, alla luce di tutto questo risulta ancora più determinante nel condizionamento non soltanto della scena interna ma, in particolare, del circostante quadro europeo che tentenna nella sua unità politica, economica e soprattutto sociale, incapace di divincolarsi dall’egemonia militare degli Stati Uniti d’America per il tramite della NATO.

Il riconoscimento di una serie di obiettivi davvero comuni ha persino riunito, già dalla fine delle ultime presidenziali, socialisti, comunisti e sinistra ecologista nella straordinaria esperienza della NUPES a cui guarda la nostra Unione Popolare ancora tutta da costruire e diffondere capillarmente nei territori. Non più delle aggregazioni nel nome semplicistico di una contrarietà alle destre, bensì sulla fondatezza di un chiaro programma di riaffermazione di valori e di fondamenta democratiche su elementi ineludibili di giustizia sociale.

La forza della sinistra francese risiede nella estrema lucidità dell’analisi dei rapporti di classe, nella ricomposizione empatica di una politica non semplicemente enunciativa ma che si cala nelle problematiche determinate da dinamiche sempre più di scontro aperto tra capitale e lavoro, tra capitale e ambiente, tra capitale e diritti civili, nonché i diritti di tutti gli altri esseri viventi su questo pianeta.

La “Macronie“, oggi come al tempo delle presidenziali del 2022, è in grande sofferenza: l’interclassismo pare non funzionare più come unico collante per una pace sociale messa a guardia delle rivendicazioni di diritti tutt’altro che irrilevanti e trascurabili (se non dal punto di vista e di interesse del grande padronato e della grande finanza francese ed europea).

L’elettorato de “La République en marche“, pur essendo ancora composto da una larga fetta di conservatorismo e di liberalismo-liberista rappresentato dalle classi più agiate, da vecchi elettori della destra e da una nuova generazione di giovani cadres cresciuti in un misto di perbenismo rampantista dal sapore un po’ yankee del “self made man“, è stato eroso nella sua eterogenesi dei fini da un’onda lunga di crisi economiche che si sono saldate a quella pandemica e, per finire, allo scoppio della guerra in Ucraina.

La sinistra della NUPES, invece, pur mancando l’obiettivo della conquista dell’Eliseo, ha mostrato di avere tutte le qualità e le capacità per ridare alla politica francese un tratto di vera e propria tensione rivoluzionaria nel rimanere comunque riformatrice e riformista, ma al di qua delle teorizzazioni di un “capitalismo correggibile”. C’è riformismo e riformismo, così come c’è destra e destra.

Quella di Marine Le Pen, senza ombra di dubbio, è l’ombra nera peggiore che si possa attagliare su una Francia impoverita e su cui, al contempo, pesano le speranze di grande parte del Vecchio Continente, per evitare che la bilancia dei diritti pesi dalla parte dei Paesi di Visegrad e di quelli dell’Est che sono oggi parte di una frontiera tanto di guerra vera quanto di guerra alle fondamenta dello Stato di diritto, della libertà fondamentale per ogni individuo di esercitare su sé stesso il pieno proprio controllo, la totale ed esclusiva sua volontà.

Le vicende che riguardano i diritti delle donne, tra cui quello all’interruzione della gravidanza, sono emblematici se si guarda al dibattito parlamentare polacco, se si scruta da vicino la spaccatura che c’è tra istituzioni e popolazione, nonostante il radicatissimo sentimento cattolico del paese. Nonostante tutto, il 62% dei polacchi – dicono sondaggi freschi – vorrebbe che il diritto all’aborto fosse garantito non solo se la madre si trova in pericolo di vita o se è stata oggetto di violenza sessuale, ma sempre.

La Francia, anche in questo caso, insegna. Ed anche l’Italia insegnerebbe se non fosse che il governo che la dirige è speculare a quello di Varsavia o di Budapest.

Il lavoro di edificazione di una alternativa di sinistra e progressista nei paesi occidentali è necessario per fermare l’avanzata liberista da un lato e, dall’altro, per scongiurare una simbiosi tra l’alta finanza e i poteri forti del capitale con i settori più retrivi, nazionalisti e reazionari della politica dei paesi dell’Unione.

Ed alla fine la domanda per noi italiani è: preso atto del passato anomalo del centrosinistra democratico e del populismo pentastellato, al netto di questo – ammesso che si possa certificare una simile cesura rispetto al presente – è possibile immaginare di costruire un campo progressista che riunisca sinistre moderate e sinistre di alternativa come in Francia?

I contorni ideali, programmatici e fattivi della politica della NUPES non corrispondono esattamente a quelli del PD e dei Cinquestelle. La situazione è, decisamente, molto più difficile da noi se si immagina di poter quanto meno ridimensionare le differenze dell’oggi e del domani, contingenti e di prospettiva se, ad esempio, si guarda alla guerra che non è certo un tema di secondo piano…

C’è molto da fare, scansando pregiudizi e prevenzioni, ma rimarcando sempre la linea per cui passa un vero cambiamento sociale anche in Italia: non da accrocchi improvvisati e dettati dalla pur giusta paura delle destre. Ecco a cosa ci hanno condotto: ad averle al governo del Paese… La rinascita della sinistra di opposizione, anticapitalista e antiliberista non può essere soltanto frutto della voglia aprioristica di governismo, ma deve essere un progetto diffuso, messo insieme con parole semplici e con pochi grandi concetti, con rivendicazioni chiare e nette.

Guardando alla Francia, sì, possiamo affermare che noi di strada ne abbiamo ancora da fare. Non troppa, ma certamente tanta e non di breve termine.

MARCO SFERINI

9 marzo 2023

foto tratta dal sito della NUPES

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