Sfumature sovraniste, populiste e atlantiste di pace

Ogni piazza riempita per rivendicare la fine di una guerra, il tacere delle armi, lo stop a tutte le violenze che un conflitto comporta inevitabilmente, è una vittoria per...

Ogni piazza riempita per rivendicare la fine di una guerra, il tacere delle armi, lo stop a tutte le violenze che un conflitto comporta inevitabilmente, è una vittoria per la pace, è un passo avanti per allargare lo spettro delle coscienze critiche che compongono parole, versi, pensieri con un alfabeto completamente diverso da quello che si utilizza per mostrare e dimostrare la necessità dello scontro.

Dunque, ben vengano tutte le manifestazioni che avversano l’autodistruzione umana, che tentano di frapporre tra le ragioni dei contendenti argomenti e proposte concretamente politiche da porre all’attenzione di una opinione pubblica distratta dal cinismo, dai pregiudizi e, peggio ancora, da partigianerie che si consolidano oggi su fonti inventate, su vere e proprie “fake news“.

C’è un “tuttavia“, però, che non può essere sottaciuto e messo nel cono d’ombra dell’angolo del castigo e della vergogna. Occorre parlarne, perché evidenzia le problematicità che ha proprio la società e, non di meno (anzi!), la politica che la dovrebbe riflettere, nell’affrontare un tema così importante come la pace in quanto assoluta, netta e inequivocabile alternativa alla guerra.

Qualunque concetto, preso di per sé, assolutizzato, rischia di essere pervaso da una sorta di dogmatismo, di intangibilità anticritica e, pertanto, di diventare fine a sé stesso, sprofondando in un autereferenzialismo che lo riduce a mera evocazione, ad una sorta di utopica aspirazione da non può venire fuori nulla di concreto, di aderente alla realtà, di confrontabile con le problematiche di volta in volta ci si pongono davanti, ci strattonano quotidianamente e ci obbligano a prendere una posizione per continua a far parte del consesso civile, sociale e morale (dis)umano.

Se la pace, come peraltro la guerra, diventa un feticcio da agitare nel nome di sé stessa, è evidente che si fa ben poca strada nella tramutazione fattiva dei valori che deve esprimere in una azione politica: tanto se si esprime in una discussione parlamentare quanto se si forma, componendosi e scomponendosi un po’ anarchicamente (e per questo non meno seducentemente), in lunghi serpentoni che si fanno strada per le città, che si amalgamano nelle piazze e che scoprono la comunitarietà, la condivisione di similitudini ideali, di pratiche nuove e antiche allo stesso tempo, avvicinandosi e non esclusivizzandosi, pensando – molto internettianamente – di avere la verità in tasca da social network.

Tanto nelle piccole città di provincia, quanto in grandi centri urbani, vecchie capitali d’Italia come Firenze, si sono tenute in questi giorni moltissime iniziative, tante fiaccolate, marce e sit-in per dire che la guerra in Ucraina è una mostruosità, che va espulsa dalla Storia, soprattutto da quella presente e in costruzione sulle macerie morali e materiali delle nazioni, provando ad unire le differenti piattaforme su cui queste manifestazioni venivano indette. Alcune volte la sintesi delle piattaforme rivendicative è riuscita, altre volte no. Questo sforzo ha riguardato anche le organizzazioni degli eventi, che non vanno sottovalutate in quanto a potenzialità politiche e che, anzi, esprimono e si esprimono proprio grazie ad una volontà di natura espressamente ideale e politica.

Laddove questa simbiosi tra partenze differenti si è definita concretamente, ha permesso di mettere da parte gli anatemi contro i partiti introdotti dal populismo grillino d’antan, dalla deriva antipolitica che si è amplificata nei decenni scorsi e che oggi, caduta in disgrazia la presuntuosissima differenza abissale tra il pentastellatismo e il resto del mondo, la sua purezza anticasta e la sua immacolata concezione avvenuta dalla condivisione visionaria di un imprenditore e di un comico, è stata praticamente abbandonata dagli eredi contiani del Movimento.

I partiti non si sono in questi anni guadagnati un rispetto che pare esprimersi oggi nella maggiore tolleranza sulle presenze di bandiere, simboli e slogan nelle manifestazioni per la pace. Ma il tempo ha giocato a favore della dimostrazione che l’altezza morale di chi guardava gli altri dall’alto in basso, con lo sprezzo della superiorità morale ben presto venuta meno dopo i compromessi governativi con la Lega prima e con il PD poi, per finire con l’abbraccio mortale nella grande “maggioranza di unità nazionale draghiana“, si è consumata in un esponenziale logoramento delle posizioni, in lotte intestine tra fazioni che non facevano altro se non rivendicare tutte, ma proprio tutte, la coerenza con le origini.

Le piazze piene di questi giorni hanno permesso di scoprire che, complici gli eventi giganteschi che ci hanno travolto da due anni e mezzo a questa parte, il populismo, se non ha chiuso del tutto la sua stagione di seduzione delle coscienze, quanto meno ha smesso di essere attrattivo su vasta scala e di non funzionare più come catalizzatore del consenso politico. La magrissima figura di Salvini al confine tra Polonia e Ucraina, davanti al sindaco sventolante la maglietta con la faccia stilizzata di Putin, è un’altra dimostrazione della caduta in disgrazia delle smargiassate, del credulismo a buon mercato, del tentativo di accaparrarsi quanti più depensanti possibili sfruttando le peggiori tragedie del nostro tempo.

La guerra, forse ancora peggio della pandemia, fa sussultare gli animi, si staglia prepotentemente davanti agli sguardi attoniti anche dei più coriacei e granitici profetizzatori dell’imperturbabilità dei nostri valori occidentali, delle nostre società che riteniamo al sicuro da qualunque sorvolo di fortezze volanti moderne, di sganciamento di bombe, di cannoneggiamenti da artiglieria pesante, da sirene che suonano nelle piazze per spingerci nei rifugi e ripararci dalle schegge impazzite della disumanità di un imperialismo che si fronteggia da ovest a est di una Europa catatonica in politica internazionale, ben lucida però se deve armare un popolo da sacrificare al tavolo della prossima pace.

Eppure la propaganda bellica dovrebbe in qualche modo alimentare la spregiudicatezza dei sovranisti, di questi moderni neonazi-onalisti un po’ da strapazzo che fanno sul serio: soprattutto quando, per lungo tempo, hanno legato i loro destini politici tanto ad una sponda dell’Atlantico, plaudendo all’aggressività trumpiana contro i migranti, contro islamici, omosessuali, comunisti e libertari di ogni tipo, quanto alla algida figura del potere putiniano, rancoroso, vendicativo e inflessibile nei suoi propositi di fronteggiamento del vecchio, molto poco caro nemico della Guerra fredda.

La destra non riesce a creare i presupposti anche minimi per mettere insieme le ragioni della pace e portarle in piazza. Per farlo dovrebbe inventarsi dei colori diversi da quelli della bandiera arcobaleno, esibire tanti tricolori italiani accanto a tante bandiere ucraine o, magari sfacciatamente, anche a tante bandiere russe, invocando una sorta di internazionalismo antibellico che, però, finirebbe col negare apertamente l’origine prima della sua originalità patriottica: il primitivissimo primato nazionale, l’etnocentricità, in questo caso italica, e la superiorità delle romane generazioni dai colli fatali di Roma.

La pace non è di destra, perché la destra non è pacifica per indole, per costituzione, per caratterialità politica, per costume propagandistico.

La pace dovrebbe essere un po’ di tutti, ma così non è e non può del tutto essere. Perché i grandi problemi civili, sociali e morali che riguardano tutta l’umanità sono oggettivamente divisivi. E finiscono con l’esserlo ancora di più man mano che si scende nel particolare delle nostre politiche nazionali e locali, visto che vanno a toccare tante corde sensibili che sono le frontiere delle nostre percezioni singole rispetto ai micromondi in cui viviamo e sopravviviamo e che finiscono con l’essere dei modesti metri di raffronto con una globalità costretta ad essere incompresa, intangibile e soltanto guardata da lontano da tanti punti vista altamente strabici.

Davanti alla guerra in Europa, le manifestazioni nelle piazze italiane si riempiono di sinistra diffusa, latamente intesa come tale, quella che al governo approva tutti gli invii di armi possibili, così come un tempo votava a favore dei bombardamenti sulla quasi completamente ex-Jugoslavia. E si riempiono di sinistra – sinistra, di sinistra di alternativa, quella che per i giornali e le televisioni è “radicale“, perché fatta di “senza se e senza ma“, di una intransigenza che poggia soltanto su valori e presupposti non trattabili, perché fondamentali e fondanti, costituenti quell’umanità nuova che si vorrebbe costruire da qualche secolo a questa parte.

Sarebbe bene che, a fronte di una fragilità della destra sui temi della pace, orfana del populismo pentastellato che non ha una “casta di guerra” da attaccare (visto che ne fa parte a pieno titolo e diritto al governo del Paese), con l’asse sovranista che si dimena tra le beghe di governo e la prospettiva delle politiche del 2023, il movimento contro la guerra si saldasse maggiormente, cercando punti di contatto anche da punti di vista differenti ma rifondando la propria cultura sulla necessità di legare la pace al disarmo, il disarmo ad una cultura di incentivazione di politiche sociali e civili, rivendicando l’abbattimento delle spese militari, la messa in discussione della presenza della NATO in Italia e la nostra adesione a questo ferro vecchio del passato, falsamente difensivo.

La pluralità delle posizioni che chiedono la pace è sempre un valore, ma deve potersi esprimere e diffondere attraverso una politica che leghi la coscienza sociale a quella civile, che metta sullo stesso piano il diritto alla coesistenza dei popoli non nella contesa mondiale tra i poli dei nuovi imperi che si riorganizzano geopoliticamente, ma in una aspirazione al superamento tanto di questi centri omicidiari di massa, quanto delle grandi ragioni delle centrali del liberismo che li supportano e ne fanno i bastioni di difesa del privilegio di classe.

La pace va declinata al plurale, ma non può essere fatta da chi ammette che la NATO è necessaria, le spese militari vanno aumentate e, di pari passo, lo stato-sociale va sacrificato nel nome delle compatibilità del mercato e della stabilità imprenditoriale. Non sono solo le destre le nemiche della pace. Purtroppo…

MARCO SFERINI

13 marzo 2022

foto: screenshot tv

categorie
Marco Sferini

altri articoli