Antonella Veltri, presidente di Di.Re (Donne in Rete contro la Violenza), una donna su tre che accogliete non ha un reddito autonomo e meno del 40% può contare su un reddito sicuro. Quanto pesa la violenza economica rispetto a quella fisica o psicologica sulle donne?

Pesa non poco perché la violenza economica è il substrato di tutte le altre violenze che si svolgono all’interno delle mura domestiche e impediscono alla donna di essere libera. Insieme a quella fisica e psicologica, la violenza economica forma un ciclo e finisce per sovrapporsi alle altre
. Questa violenza si manifesta anche quando nelle relazioni di intimità il partner ha il controllo del conto corrente, o quando si intestano i beni interamente a una parte lasciando le donne in difficoltà qualora decidessero di abbandonare i loro compagni. L’80 per cento delle donne che vengono accolte dai Centri antiviolenza vivono maltrattamenti e abusi all’interno delle relazioni familiari

In cosa consiste il vostro intervento?

Per quanto riguarda l’autonomia economica, cerchiamo di dare gli strumenti necessari all’inserimento lavorativo attraverso progetti. Affianchiamo le donne nella costruzione o revisione del curriculum e nel bilancio delle competenze. Costruiamo con loro percorsi di formazione e per questo abbiamo sportelli di orientamento. Siamo 82 organizzazioni su tutto il territorio nazionale, che gestiscono 106 Centri antiviolenza, oltre 50 case rifugio e 182 sportelli territoriali. Le organizzazioni sono strutturate anche con “sportelli lavoro” che accompagnano le donne per una completa autonomia economica.

Nel 2021 è partito il “reddito di libertà” che avrebbe dovuto assicurare un’indipendenza economica. Qual è il bilancio di questa misura?

Non è positivo. I 400 euro erogati per un tempo limitato sono pochi. La copertura limitata ha diminuito drasticamente la sostenibilità e la praticabilità di una simile misura. Stando ad alcuni dati sono stati stanziati tre milioni di euro che sono andati a poco più di 600 donne in tutta Italia. Ma qui parliamo di un fenomeno che riguarda oltre 50 mila donne e che ha ancora moltissime situazioni non emerse.
Non mi sembra che sia una misura adeguata per parlare di supporto all’indipendenza economica. Parliamo di briciole rispetto alla gravità di quanto accade. Senza contare che è difficile accedere a questo strumento. Abbiamo a volte riscontrato che il “reddito di libertà” si è arenato nelle pastoie burocratiche dell’amministrazione e non ha funzionato. Solo in alcuni casi è stata un’àncora per alcune donne per costruire la loro indipendenza economica. Ma non credo alle misure ad hoc. C’è bisogno di un intervento a tutto tondo.

L’Emilia-Romagna ha stanziato 1,3 milioni di euro ad integrazione dei 200 mila euro statali per il “reddito di libertà”. Ci sono altre regioni che hanno fatto lo stesso?

Un intervento come questo da parte degli enti locali va bene, ma si rischia di creare una disparità tra regioni virtuose che possono permetterselo e hanno capacità e volontà politica, e regioni in cui non ci sono queste premesse. Così si crea una disparità ulteriore a livello nazionale Abbiamo bisogno di un intervento sistematico e strutturato a livello governativo.

Giorgia Meloni è la prima presidente del Consiglio donna in Italia. A sua conoscenza cosa intende fare sulle politiche anti-violenza e per l’autonomia delle donne?

L’ho ascoltata quando sono intervenuta al Senato come relatrice alla Commissione Femminicidio presieduta da Valeria Valente. Credo che non abbia una piena consapevolezza del fenomeno e soprattutto della necessità dell’assunzione della responsabilità politica. Ha riproposto le famose tre “P” della Convenzione di Istanbul: Prevenzione, Protezione e Presa in carico. Sono parole che hanno un peso se si ha conoscenza del fenomeno e delle sue cause strutturali.

Quali sono?

La libertà delle donne si può raggiungere decostruendo i modelli stereotipati della nostra cultura e della famiglia tradizionale. Meloni ha detto che siamo tutti dalla stessa parte nel contrasto alla violenza contro le donne. Ma per esserlo è necessario conoscere il fenomeno, e le sue cause. Adottare politiche capaci di contrastare gli stereotipi che lei stessa ripropone. Mi ha colpito la polemica che ha accompagnato il suo desiderio di farsi chiamare al maschile: “il” presidente del Consiglio. A me piace chiamarla al femminile, a meno che lei non si dichiari “Gender fluid”. E non mi pare il suo caso.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

Foto di cottonbro studio