Lo chiamano «effetto frusta». Sta spingendo Amazon a licenziare 18 mila persone nei negozi e nelle divisioni «People, Experience and Technology». I tagli saranno annunciati ufficialmente il 18 gennaio. Lo ha scritto ai dipendenti l’amministratore delegato Andy Jassy in una mail. Saranno ottomila in più rispetto ai 10 mila di novembre 2022. E si è anche parlato di 80 mila licenziamenti tra i lavoratori assunti a termine.

Tra la pandemia del Covid nel 2020, e il rimbalzo economico provocato dalla fine dei lockdown, Amazon ha potuto contare su 1 milione e 540 mila assunti in tutto il mondo. Due anni dopo è arrivato il colpo di frusta. Si è abbattuto sull’immenso conglomerato di attività materiali e immateriali, magazzini e logistica dell’ultimo miglio, produzione di software e serie Tv. E, come in Facebook, anche qui sono iniziati i licenziamenti. Goccia nel mare, si dirà, Ma questo è un segnale di un processo più grande. Vediamolo.

La frusta è in mano ai clienti finali. Il suo colpo è tanto più forte, quanto più la frusta si allontana dalla mano che la tiene. Questo avviene dopo una crescita straordinaria alla quale segue un crollo. Sta accadendo da mesi. Lo storico dell’economia Adam Tooze parla di «policrisi», cioè il concatenamento della crisi indotta dalla guerra e dalla crisi ecologica, dal Covid che ha bloccato a ripetizione le catene globali di approvvigionamento.

E poi ci sono le politiche monetarie restrittive delle banche centrali che hanno aumentato i tassi di interesse per fermare la parabola ascendente dell’inflazione. Così facendo stanno aggravando i bilanci familiari e svalorizzando i salari e i redditi. I soldi non vengono spesi per comprare telefonini o abbonamenti, ma per pagare l’aumento dei mutui. E la pubblicità online cala.

Le borse vanno male. E i profitti di Alphabet, società madre di Google, si sono dimezzati. Meta, la società che contiene anche Facebook, ha perso il 30 per cento del suo valore. Netflix il 50%, Microsoft il 28%. È scoppiata la bolla Elon Musk, colui che ha provato a licenziare con una mail la metà dei dipendenti di Twitter dopo avere acquistato l’azienda. La «sua» Tesla, un produttore di auto elettriche e non di tecnologia, in un anno ha perso 650 miliardi di dollari di capitalizzazione, 47 miliardi il 3 gennaio scorso. Apple ha annunciato la perdita di mille miliardi di dollari del valore virtuale.

Il mercato è come una fisarmonica: quando tira, si lavora; quando cala, si va a casa. Per le aziende targate «Silicon Valley» è come stare su un altalena. Immagine organica a una rappresentazione del mondo «gamificata», cioè trasformata in un video-game. Tutto questo è già accaduto negli ultimi vent’anni, almeno. Il crollo delle dot.com nel 2001, ad esempio. Allora Amazon tagliò 1.500 posti di lavoro, allora il 15% della forza lavoro. Oppure nel 2018, in occasione di un altro calo delle attività, dopo un periodo di espansione.

La teoria di Forrester, detta anche «effetto frusta», aiuta a comprendere questo andamento ciclico. Prospetta un sistema tipico del post-fordismo. Cerca di reagire, in tempo reale, agli ordini dei clienti. Se, come oggi, i prezzi aumentano e gli stipendi calano, allora reagisce a un calo della domanda. E taglia posti di lavoro. In sé, però, questa situazione non è considerata troppo dannosa per le aziende. Anzi, può diventare l’occasione di «razionalizzare» la loro attività cresciuta rapidamente.

In un’economia capitalistica, va ricordato, questo concetto è considerato un sinonimo di «licenziamento», taglio dei salari o di liquidazione di aziende periferiche che compongono la rete finanziaria e imprenditoriale di grandi agglomerati. È accaduto da novembre 2022 in Amazon. Si è iniziato a tagliare chi ha lavorato all’assistente vocale Alexa. È stato ridimensionato il servizio di pronto intervento salute Amazon Care. Lo stesso è accaduto a Scout, il robot per le consegne a domicilio, che impiegava 400 persone. O a Fabric.com, una filiale che ha venduto macchine per cucire per decenni.

C’è però una novità. Nel 2022 il Nasdaq, l’indice della borsa dei titoli tecnologici negli Stati Uniti, è crollato del 30 per cento. S&P, uno dei fari di Wall Street che raggruppa i titoli più «tradizionali» è diminuito «solo» del 15 per cento. È un segnale ricorrente in un capitalismo dove la valutazione di borsa è disconnessa da quella reale. Tuttavia colpisce al cuore un sistema basato sulla capacità di attrarre capitali e sull’aumento continuo dei prezzi delle azioni. Tutto si basa sull’hype, cioè la fascinazione pubblicitaria dell’innovazione tecnologica. È questo che cercano i finanziatori. È questo che danno i capitalisti delle piattaforme.

I nuovi leviatani restano enormemente ricchi. Ma anche le divinità capitaliste hanno perso l’immunità e sono esposte alle congiunture. Lo sono sempre state, in realtà. La policrisi sta facendo a pezzi le mitologie dell’automazione totale che hanno spianato la strada a queste aziende e hanno colonizzato l’immaginario con le distopie tecnologiche, le teorie totalitarie del potere e le apocalissi della fine del mondo. I tre pilastri dell’impotenza organizzata in cui viviamo.

Stiamo invece parlando di una fase matura, e di una crescita debole, del capitalismo digitale. Sarebbe già questo un modo per recuperare il senso di una storia, fare una critica dell’economia politica e non merchandising a mezzo stampa.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

Foto di Luis Quintero