Pyongyang, la negazione del comunismo

Bufala o no, bomba atomica o bomba di altro tipo, terremoto di magnitudo 5.1, il punto che riguarda gli armamenti della Corea del Nord è un altro, ed è...

Bufala o no, bomba atomica o bomba di altro tipo, terremoto di magnitudo 5.1, il punto che riguarda gli armamenti della Corea del Nord è un altro, ed è più politico che “strategico”.
E il punto è questo: possono i comunisti fare di uno Stato come la Corea del Nord un modello da proporre alla società in quanto interprete dell’ideologia comunista stessa, dell’antimperialismo?
E se possono, come si coniuga l’attualità ed anche la storicità dell’internazionalismo antibellico dei comunisti con la corsa agli armamenti nucleari o comunque agli armamenti in generale diventando fautori e sostenitori del nucleare?
Capisco che è un terreno molto accidentato su cui avventurarsi per produrre una opinione che possa avere la presunzione di una qualche oggettività, per cui dico già da queste prime righe che non ho alcuna pretesa di verità assoluta (sarebbe profondamente contraddittorio esigere ciò da un marxista) e che ciò che scriverò tra breve è solo la mia personale opinione fondata sulla mia altrettanto personale concezione del movimento comunista.

Spesso pacifismo e ambientalismo, separati o uniti da una sorte comune, vengono visti come acquisizioni necessarie da parte dei comunisti in molte parti del mondo: si è fatto credere che il comunismo, “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” per citare il buon vecchio Marx, fosse tutto proteso al solo operaismo, alla costruzione esclusiva delle condizioni di liberazione del proletariato dalla schiavitù del lavoro salariato, quindi del capitale.
Le altre lotte, che non fossero esclusivamente lotte operaie, venivano derubricate ad espressione di conquiste necessarie ma minori rispetto alla lotta di classe in questo senso concepita.

Invece proprio la lotta delle classi sociali ha sempre incluso ed include anche oggi una globalità di tante piccole o grandi battaglie che ne sono espressione genetica, inseparabili tra loro pur nelle differenze pratiche del quotidiano in cui viviamo.

La lotta per l’emancipazione dei lavoratori e delle lavoratrici non è una lotta che può essere innalzata e messa davanti a princìpi di tutela dell’ambiente in cui si vive e si lavora; così come non può essere innalzata o separata dalla lotta per i diritti civili: il lavoratore è prima di tutto un essere umano e in quanto tale non può trovare una vera liberazione dallo sfruttamento capitalistico se tollera che nella società che vuole costruire persistano pregiudizi incivili, esclusivismi, forme di discriminazione di qualunque genere. E tutto questo vale anche per l’ambiente, per l’ecologia, per la necessaria cura del mondo in cui viviamo e che proprio il capitale distrugge ogni giorno.

Secondo alcuni comunisti, i comunisti stessi per essere veramente tali, sacralmente puri, dovrebbero dedicarsi solo alla lotta operaia, tralasciando tutte le altre lotte.
Provate a pensare a come agisce invece il capitale quando ogni giorno governa il mondo con la sua rete di condizionamenti economici: tutto quello che la struttura economica produce, tutte le relazioni di borsa, tra titolo e titolo, tra transazione e transazione, tra banca e banca, tutto questo ha una ripercussione proprio su ogni cosa, su ogni aspetto della nostra vita.
Il capitale non si cura direttamente delle relazioni umane, dei diritti civili o dell’ambiente ma li condiziona costantemente: lo fa provando ad unire invece che a separare ed a far apparire uguale ciò che invece è profondamente segnato da un diversità che solo chi possiede una coscienza critica può interpretare e capire.

Certi comunisti, invece, vorrebbero limitare l’attacco al capitale sul fronte della condizione lavorativa: emancipare il lavoratore significa per loro automaticamente emanciparlo in tutto il restante ambito di vita che gli rimane.
Usciti dal loro luogo di lavoro, liberati dall’oppressione capitalistica, l’operaio, il precario, l’impiegato sarebbero meccanicisticamente liberi nella società intera. Liberi da preconcetti, pregiudizi, morali secolari che colpiscono uomo, donna, natura.

Una interpretazione simile del comunismo, del movimento che vuole abolire lo stato di cose presente, è così avvilente, così piccola e settaria da negare l’origine stessa della necessità di una rivoluzione, di uno stravolgimento sociale che determini un cambiamento radicale della vita umana, animale e, crepi l’avarizia!, anche vegetale (quindi ambientale) e che, quindi, tracci un nuovo corso a 360° per una nuova umanità.

Rinchiudere il comunismo nella “bellezza” del regime coreano, dicendo che si tratta di uno Stato operaio, di un luogo dove si esercita la “democrazia popolare”, è prendere una gabbia mentale e mettersela addosso con una felicità consapevolmente impossibile da vivere già in ipotesi… figuriamoci in una realizzazione pratica.

La Corea del Nord, così come altri esperimenti di attuazione del marxismo, ha fallito nel divenire altro non solo da Marx, ma da tutto quanto anche lontanamente ne potesse derivare.

Il comunismo è una necessaria ispirazione liberatrice che si estende ovunque e che non ha confini. Farne una dottrina, significa ucciderlo. Farne uno Stato significa annichilirlo. Farne un dogma, significa insultarlo.

Tenetevi pure il vostro comunismo realizzato in Corea del Nord e l’amore per l’atomica. Tenetevi pure la considerazione dei diritti civili, del pacifismo e dell’ambientalismo come figli di una umanità maggiore che non ne ha immediato bisogno nel paradiso proletario che immaginate.
Non solo questo paradiso mi disgusta, ma è un avversario per i comunisti tanto quanto lo è qualunque altro regime autoritario: dagli Stati Uniti d’America alla Cina, alla Russia.

Un discorso a parte meriterebbe l’unicità del mondo cubano. Ma di questo parlerò, magari, una prossima volta…

MARCO SFERINI

7 gennaio 2016

foto tratta da Pixabay

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