Unione Popolare e l’utile diversità del voto

La captatio benevolentiae è, giocoforza, parte sostanziale, protagonista relativamente assoluta della campagna elettorale. Da sempre. Una forza politica dovrebbe accreditarsi i consensi attraverso un sincero, serio e determinato programma...
Jean-Luc Mélenchon e Luigi de Magistris

La captatio benevolentiae è, giocoforza, parte sostanziale, protagonista relativamente assoluta della campagna elettorale. Da sempre.

Una forza politica dovrebbe accreditarsi i consensi attraverso un sincero, serio e determinato programma politico, dicendo ai cittadini cosa veramente intende fare una volta arrivata ad avere quella condizione di maggioranza parlamentare che le permetta di governare. Invece, dai tempi dei tempi, l’arte della politica è stata fatta dipendere da un interesse particolare, addirittura personale, rendendola così spesso avulsa dalla realtà stessa e antipatica al gran parte della popolazione.

Non fanno eccezione queste elezioni estive di un 2022 che chiude una legislatura iniziata con la cavalcata del Movimento 5 Stelle verso Palazzo Chigi, la sua permanenza prima con la Lega e poi con il PD attorno al tavolo circolcare dell’esecutivo.

E proseguita con Mario Draghi e la sua “maggioranza di unità nazionale“. Basterebbe questa descrizione del nuovo trasformismo dell’italica politica a fare dell’assunto precedente una specie di legge non scritta che dura nel tempo, che si fa consuetudine e che vale più ancora della stessa Costituzione repubblicana.

Ma il livello dello scontro si acuisce, aumenta proprio nelle ultime e anche in quelle vere settimane di campagna elettorale che, vista la brevità con cui si è giunti alla contesa tra i partiti e ad un dibattito stanco, trito e ritrito in una società piena di problemi insoluti e insolvibili nel breve e medio termine, sono l’apice della contesa. E così, eccolo che salta fuori da un comizio di Enrico Letta.

Se non ne fossimo già ben consapevoli da decenni e decenni, ci stupiremmo a sentire parlare di “voto utile” così spudoratamente, così platealmente.

Il segretario nazionale del PD, indossa i panni del professore senza dismettere quelli del politico navigato, e ci spiega che in sessanta collegi non si gioca – si badi bene – la partita con le destre ma la sola (pure importante) possibilità che queste non raggiungano la soglia di voti che le porterebbe nelle Camere ad ottenere quei due terzi di seggi con cui potrebbero modificare a proprio piacere la Costituzione della Repubblica.

Dunque, il voto utile viene addirittura dimezzato nella sua potenzialità, perché i numeri dei sondaggi sono così poveri da non consentire al PD di giocarsela con la coalizione del tridente sovranista-liberista.

E’ una tattica tutta sulla difensiva, che fa infuriare il progetto neocentrista del terzo polo di Calenda e Renzi, che scoprono solo ora cosa vuol dire parare i colpi della prepotenza del “voto utile“, e che inalbera Conte intendo a mostrarsi l’unica forza progressista capace di contrastare i disegni conservatori da un lato e quelli fintamente di sinistra dall’altro.

Il sillogismo sull’utilità di un voto può funzionare in una logica soltanto distorta da una legge elettorale fatta per impedire la competizione paritaria.

Una delle riforme che vanno fatte, per ristabilire un po’ di democrazia e di uguaglianza tanto per l’elettorato attivo quanto per quello passivo, è il ritorno ad una legge elettorale proporzionale pura da inserire nella Costituzione come propellente dell’equipollenza di ogni singola espressione di consenso a qualunque formazione politica.

Se le regole del gioco alterano a monte la capacità incisiva del voto di determinare la politica nazionale, è evidente che vi sarà sempre una discrepanza tra il principio costituzionale del diritto stesso di accesso alle urne per tutti e la potenzialità di quel diritto dal momento in cui la scheda votata è depositata nell’urna.

Seguendo la logica di Letta, quindi accettando il rischio di scadere nella imperizia con cui si argomentano soluzioni pseuso-salvifiche per il Paese, promettendo uguaglianza di trattamenti sociali quando nemmeno i democratici sono in grado di garantire quella formale del diritto di voto, potremmo argomentare che ogni voto è utile perché, prima di tutto, serve a determinare fattivamente la volontà dell’elettore che è un essere sociale, un cittadino che, tracciando una X su un simbolo tondo, intende difendere tanto il proprio interesse quanto quello collettivo.

Se ci trovassimo veramente in un regime parlamentare, democratico, rappresentativo della volontà della popolazione proporzionalmente espressa con un eguale numero di rappresentanti nelle due Camere, allora filerebbe anche il ragionamento per cui, formandosi le maggioranze in sede parlamentare, ogni voto ha la sua dignità di esistere e di sommarsi ad altri, sapendo che l’unica esclusione possibile dall’ingresso nella alte aule del fulcro della Repubblica sarebbe determinata dal termine numerico dei seggi stessi.

Una volta finito di distribuire gli scranni ai partiti che ne hanno proporzionalmente diritto, chi è rimasto sotto una soglia infinitesimale (si tratta sempre di percentuali dello “zerovirgola“) proverà al prossimo giro di giostra a crearsi quel consenso che gli permetta di avere, quanto meno, quello che un tempo era definito con un certo orgoglio veramente democratico come “diritto di tribuna“.

Ma nemmeno questo, invece, è consentito avere da una legge elettorale pensata per una alternativa tra blocchi opposti che non possono, oggi, veramente competere fra loro, visto il disallineamento che registrano nel momento in cui vogliono presentarsi entrambi come pesi massimi della politica italiana.

Passi per il centrodestra, ma il cosiddetto, fu centrosinistra è poco più di una alleanza del PD con microsatelliti che pretenderebbero di rappresentare i moderati e i liberisti da un lato e i progressisti e la sinistra dall’altro.

Dunque, se per Letta è politicamente ed elettoralmente logico fare appello ad una utilità del voto se data al PD e, soprattutto, in quei sessanta collegi dove si giocherebbe la partita del due terzi di seggi su cui poggerebbe il potere di cambiamento parlamentare delle norme costituzionali, è altrettanto logico che le reazioni indignate sopravanzino ogni argomento di campagna elettorale di queste ore: finalmente non è soltanto più Rifondazione Comunista ad essere accusata di far cadere governi o di impedire alle forze moderate di battere le destre.

Adesso questo amaro veleno tocca berlo proprio a coloro che sono stati gli artefici di quelle leggi elettorali che, come nemesi di una politica a cui per troppo tempo è stata fatta violenza, portandola ad essere la schiava degli interessi meramente privati piuttosto che l’espressione fondante, giorno dopo giorno, la vita della Repubblica, si sono rivoltate contro rapporti di forza parlamentari capovolti e sorti avverse nei confronti diretti con l’elettorato.

Il discorso di Letta mira a pretendere un pragmatismo legato ad una solida difesa della Costituzione, della democrazia, dei rapporti sociali e civili in una Italia dove, partiti come il PD, hanno fatto politiche che hanno destrutturato proprio quello che oserebbero ancora reclamare come familiare, come bagaglio ideale, culturale e programmatico, come DNA di un progressismo che ormai, anche i commentatori più scafati, vedono scivolare pericolosamente verso l’irrimediabilità di un asse centrista tutto in formazione.

I Cinquestelle tentano di rubare la scena del progressismo ai democratici e – bisogna dirlo – ci riescono anche piuttosto bene. Forse non per le virtù taumaturgiche di un Giuseppe Conte, cui qualche genio dell’onomaturgia ha attribuito il soprannome “Camaleconte“, considerate le sue circonvoluzioni da destra a sinistra nel giro di pochi anni; semmai per un via via progressivo ridimensionamento del campo progressista che, nell’immaginario collettivo, veniva identificato primariamente con il PD.

La sensazione è che le percezioni popolari stiano mutando e non solo in questa direzione. Per questo sarebbe stato utile, veramente molto utile, avere una coalizione che comprendesse le forze che possono con oggettività oggi essere comprese in un polo progressista (Unione Popolare, Sinistra Italiana, Verdi e Cinquestelle).

Ma, siccome cosa fatta capo ha, dobbiamo pensarci competitori oggi con almeno l’obiettivo di costringere questa politica anti-parlamentare, sempre più protesa verso un presidenzialismo non certo democratico, a fare i conti con composizioni e scomposizioni che proprio in Parlamento trovino la loro ragione d’essere.

Il vero tradimento elettorale e politico è nello snaturarsi, nel chiedere un voto per una coalizione cui si appartiene soltanto per assicurarsi un reingresso nelle Camere, facendo finta di non accorgersi che in quel modo si provvede a rafforzare una delle parti in causa che intendono riproporre il draghismo come agenda politica, come procedura di intesa tra governo e Parlamento.

E’ così che si battono veramente le destre? E’ questo il voto utile che molti italiani di sinistra pensano di dare, in assoluta buona fede, convinti dal ricatto di una potenzialità del consenso a seconda della grandezza della forza per cui lo si esprime e dei rapporti di forza che si creano di conseguenza dopo il voto? E’ davvero questo che può fermare il tentativo di sovvertimento delle regole costituzionali?

Oppure non è forse questo meccanismo ad aver contribuito ad una ascesa delle peggiori forze conservatrici e sovraniste?

Chi è abituato a truccare in questo modo le regole del gioco (e non certo da oggi), non può dare alcuna garanzia di protezione della democrazia. Perché la democrazia non è soltanto data dalla rigidità normativa della nostra Carta fondamentale e dalla giusta rivendicazione della preservazione complessiva di tutto l’impianto già troppo rimaneggiato nei decenni passati.

La democrazia permane su una base di sicurezza e si procrastina grazie alla sicurezza sociale, ad una protezione delle fasce più deboli della popolazione da incertezze di ogni tipo: dalla scuola alla sanità, dal lavoro alla cultura, dall’ambiente alla fiscalità che deve tornare ad una progressività vera.

Non si può più credere a nessuna utilità di un voto dato a chi, magari un attimo dopo lo scrutinio, è pronto a fare una bicamerale con Giorgia Meloni per riscrivere col più vasto consenso e la più ampia condivisione possibile proprio la Costituzione che si affermava di voler tutelare.

Sono ipotesi. Almeno queste ultime. Pure malevole illazioni, se volete. Ma non sono molto lontane da quello che abbiamo visto in un recente passato.

Nessun voto è più utile di quello che viene dato aderendo massimamente ai princìpi costituzionali e scostandosi altrettanto dall’influenza maleficamente antidemocratica e antisociale dell’impianto della legge elettorale, di ciò che ci si vorrebbe far fare seguendo quella perversione che nega la laicità delle istituzioni, in senso prettamente repubblicano.

Unione Popolare va votata anche per questo: perché coraggiosamente proporzionalista, orgogliosamente di sinistra, pacifista, antiliberista, per il pubblico e i beni comuni senza se e senza ma. Non ci sono compromessi possibili su questi argomenti che sono la traslitterazione ideale di problematiche concretissime che vanno risolte con una radicalità non negoziabile.

L’auspicio, se proprio vogliamo ancora flagellarci – ma benevolmente – con una sorta di utilità del voto, sta nella determinazione a raccogliere in Parlamento uno schieramento che difenda i diritti sociali e civili e si batta per il loro ampliamento, per la loro declinazione moderna, utilizzando tutti quegli strumenti costituzionali che sono possibili e facendo leva, parimenti, sulla costruzione di un grande movimento di massa che supporti tutto questo.

Ai giochetti lettiani sul “voto utile” rispondiamo con una utilità del voto molto, ma molto diversa.

MARCO SFERINI

8 settembre 2022

foto: screenshot You Tube

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