Una svolta ancora non si vede

Legge di bilancio. Ancora una volta, mancano dai radar della manovra giovani, precari, la generazione bruciata da questi anni di controrivoluzione neoliberista e dagli effetti collaterali della grande crisi globale. Manca un piano per il sud (ci si affida agli investimenti dei privati), che sprofonda sempre più verso l’abisso della desertificazione economica e dello spopolamento

«Salvo intese», il primo passo verso la legge di bilancio 2020 è stato compiuto. Quali novità porterà la manovra, se si eccettua la lodevole intenzione di andare più a fondo nella lotta all’evasione fiscale?

Ciò che colpisce del documento programmatico licenziato dal governo è innanzitutto la sua debolezza di fronte alle piaghe della nostra economia e della nostra società.

Le ultime stime del Fondo monetario internazionale dicono che la crescita del nostro Paese quest’anno sarà dello zero virgola zero. L’anno prossimo dello 0,5%. In base alle regole europee, questi sono i numeri su cui calibrare la quota di spesa pubblica finanziabile in deficit. Denominatore in calo, minori spazi fiscali. Esattamente il contrario di quello che servirebbe, vale a dire un surplus di spesa pubblica per compensare la debolezza di quella privata (l’inflazione è stimata ancora sotto l’1%).

Il governo, comunque, prevede un deficit per il 2020 al 2,2% del Pil. Considerato che a legislazione vigente, senza gli interventi previsti dalla manovra, questo rapporto sarebbe dell’1,4%, se ne deduce che circa metà dell’operazione, per un valore di 14 miliardi, verrebbe ad essere finanziata in disavanzo. 14 miliardi su 30, la flessibilità chiesta a Bruxelles per far quadrare i conti. Il problema è che il grosso della manovra sarà assorbito dalla sterilizzazione della clausola Iva, un intervento necessario che però non aggiunge niente per risollevare l’economia. Il resto sono provvedimenti bandiera, come il taglio del cuneo fiscale, o dal lato dell’impresa, sotto forma di incentivi (Industria 4.0, sgravi per investimenti green). Strade già battute. Il taglio del cuneo fiscale, in particolare, riguarderà, come nel caso degli 80 euro di Renzi, una platea larga ma di «garantiti», lavoratori dipendenti pubblici e privati con reddito imponibile tra i 26 mila a i 35 mila euro l’anno. Pochi spiccioli – si parla di una media di 40 euro – elargiti a pioggia, secondo una logica che non ha portato grandi frutti in passato, bilanciati dal taglio del bonus renziano che potrebbe diventare una detrazione.

Ancora una volta, mancano dai radar della manovra giovani, precari, la generazione bruciata da questi anni di controrivoluzione neoliberista e dagli effetti collaterali della grande crisi globale. Manca un piano per il sud (ci si affida agli investimenti dei privati), che sprofonda sempre più verso l’abisso della desertificazione economica e dello spopolamento. Mancano le aree interne, che di abbandoni, spopolamento e taglio dei servizi, sono state le prime vittime in questi anni.

Sembra che l’idea di accorpare Imu e Tasi, l’imposta comunale sugli immobili e quella sui servizi indivisibili, sia stata per il momento accantonata. «Salvo intese». Ma la paventata ipotesi di intervenire su questo versante apre comunque ad una riflessione. Il provvedimento porterebbe ad una rimodulazione verso l’alto delle aliquote di base, con facoltà per i comuni di andare perfino oltre. Chi conosce i problemi dei comuni, soprattutto di quelli piccoli e periferici (il 69% del totale), sa che la maggior parte di essi fa i conti con gravissimi problemi di bilancio, figli dell’armonizzazione delle regole contabili locali a quelle nazionali ed europee.

Molti, proprio in virtù di tali vincoli, sono finiti in pre-dissesto o dissesto vero e proprio. Una dinamica micidiale: i cittadini non ce la fanno a pagare tasse e lo Stato impone ai sindaci di compensare le minori entrate sottraendo preventivamente risorse ai servizi essenziali ed al welfare locale. I comuni, per rientrare dai disavanzi, non hanno altra scelta che aumentare ancora di più le tasse, a cominciare proprio dall’Imu, colpendo in primo luogo chi le tasse le ha sempre pagate.

Ciò, a fronte di un patrimonio immobiliare che nei piccoli centri non vale più nulla. Prime, seconde o terze case che siano.

Una grande svolta, quindi, sarebbe quella di ripartire dai comuni, rivedendo le folli regole di bilancio vigenti, incentivando la permanenza delle persone, dei giovani, nei territori che subiscono maggiormente il fenomeno dell’erosione demografica e del capitale sociale. Ci sarebbe bisogno di un grande piano di investimenti pubblici per le aree interne e di nuove assunzioni, legate all’economia verde, all’innovazione e alla ricerca, alle filiere del turismo culturale. Un cambio di paradigma, che ancora purtroppo non si intravede.

LUIGI PANDOLFI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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Politica e società

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