Una democrazia autolesionista sulla via di Predappio

E’ tornata di stretta attualità, per l’ennesima volta, la tomba di Mussolini. Anzi la cripta, nel suo insieme, che si trova nel cimitero di Predappio. La famiglia vorrebbe che...

E’ tornata di stretta attualità, per l’ennesima volta, la tomba di Mussolini. Anzi la cripta, nel suo insieme, che si trova nel cimitero di Predappio. La famiglia vorrebbe che a garantirne apertura e tutela fossero le finanze pubbliche del Comune oggi amministrato dal centrodestra. Qualcuno ipotizza di farne addirittura un mausoleo. Altri aggiungono proposte come quella di creare nella ex casa del fascio di Predappio un museo storico del fascismo.

Si adducono giustificazioni storiche per sostenere l’insostenibile: stabilire lì, nel luogo natale, un punto di partenza per una rivisitazione della storia che, soprattutto sugli ultimi giorni e sulla morte del capo del fascismo, è oggetto di interpretazione e di discussione da oltre settant’anni.

Sulla morte del dittatore Benito Mussolini (è bene specificare sempre quale sia il titolo disonorevole che gli ha giustamente attribuito la sua parabola storica), infatti, esistono circa una decina di ricostruzioni e una letteratura che vorrebbe essere storiografia seria e che, il più delle volte, è francamente scaduta nella peggiore caricatura di sé stessa basandosi su tanti “sentito dire“, su riscontri azzoppati da altri riscontri e su collegamenti impropri tra i desiderata dei nostalgici del duce e della criminale Repubblica Sociale Italiana.

Di certo, di assolutamente certo sappiamo che Mussolini ebbe un colloquio con i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Altra Italia (CLNAI) a Milano, dietro mediazione del cardinale e arcivescovo della città Schuster, proprio il 25 aprile, accompagnato da Barracu, Zerbino e Graziani. Davanti alla richiesta di resa senza condizioni dettata da Cadorna, Lombardi e Arpesani, il capo del fascismo prese tempo: un’ora per riservarsi di accettare o meno le richieste dei partigiani. Ma chi aveva bluffato tutta la vita, mentito e ingannato una nazione intera, non poteva certo nell’ora della disfatta divenire a più miti consigli. E infatti non tornò e non fece sapere più nulla.

La morte di Mussolini è circondata da una serie di testimonianze che costruiscono il tetro scorrere di quelle ultime settantadue ore del dittatore tra luci ed ombre. Luci che lampeggiano tra le vie decrepite della Milano erosa dalla guerra, ombre che si stagliano sui palazzi e sui volti: primo fra tutti quello dell’ex duce.

E’ proprio Sandro Pertini a darne testimonianza storica: essendo venuto a sapere furtivamente della riunione dell’arcivescovado, non avendovi potuto partecipare dall’inizio, si recò comunque sul posto e si accorse che era finita poiché mentre saliva gli scaloni del palazzo, di contro li scendevano i gerarchi rimasti insieme a Mussolini: livido in volto, smagrito, precocemente invecchiato, emaciato provato da tutto il peso di una storia che ora gli si rovesciava addosso senza alcun timore reverenziale.

Di certo, sempre di assolutamente certo sappiamo che Mussolini fu ucciso dai partigiani e che il suo cadavere, insieme a quello di altri gerarchi e della sua amante Claretta Petacci, venne condotto a Milano nel piazzale Loreto nel punto esatto in cui era avvenuto, il 10 agosto del 1944, un cruento eccidio di antifascisti e partigiani, lasciati a terrà per un’intera giornata dai fucilatori della Legione “Ettore Muti“.

Di certo, sappiamo che la morte di Mussolini e dei suoi gerarchi è divenuta nel tempo uno strumento di revisionismo storico, un affare editoriale per alcuni, un lasso di tempo da fermare per altri, per renderlo misterioso grazie alla concitazione di quei momenti fatti di tanti spostamenti in auto, di brevi soste e di tanti occhi che videro, seppero ma non parlarono per molto tempo.

Il mistero avrebbe dovuto imporsi anche sulla morte di Mussolini così come di tutti i grandi tiranni della storia. L’ipotesi del “complotto” deve poter avanzare a cominciare dall’autopsia contestata, dall’analisi dei sette fori di proiettile penetrati nel corpo del dittatore che sarebbero l’esatto numero di colpi uditi da una giovane vicina di casa della famiglia De Maria di Bonzanigo di Mezzegra che, suo malgrado, ospitò Mussolini e la Petacci nella notte del 28 aprile 1945.

Il racconto del colonnello “Valerio” (Walter Audisio) del Corpo Volontari della Libertà, incaricato dal Comitato di Liberazione Nazionale di uccidere Mussolini,  non coincide: dal numero di colpi sparati alla distanza da cui sarebbero stati sparati. Fior fior di trasmissioni televisive si sono interrogate sugli ultimi dieci minuti di vita del duce del fascismo e, insieme ai tanti libri scritti che non fanno altro se non contraddirsi vicendevolmente sulla balistica, sulla borsa contenente un carteggio tra Churchill e il dittatore italiano, sul mitologico “oro di Dongo“, hanno creato l’aura di un mito tutt’altro che sacro, ma pur sempre un mito che permea la fine di un tiranno.

La storia è stata così ridotta al conteggio di qualche proiettile esploso in momenti frenetici, densi di adrenalina, dove si proclamava nel nome del popolo italiano di rendere giustizia alla nazione fucilando il dittatore e cercando di allontanare la Petacci che, invece, scelse di fargli scudo col suo corpo e di morire con lui.

Ridotta ad un ben misero mercato delle opzioni sulla fine dell’ex duce del fascismo, tutta la vicenda assume i connotati del fallace, dell’improbabile che diviene la nuova versione dei fatti e tutto si relativizza, diventa possibile. L’Italia, ad oggi, non è riuscita, nonostante la Costituzione che abbiamo, a creare una coscienza democratica pienamente tale da relegare qualunque rigurgito neofascista nello stigma perenne della vergogna.

Tutto intorno al cimitero di Predappio si trovano negozi che vendono ogni tipo di chincaglieria come se ci si trovasse in un santuario del fascismo. La contraddizione sta, in fondo, tutta qui: se non si mette al bando tutto questo come si può, poi, contestare la creazione addirittura di un mausoleo per il dittatore.

Ogni anno siamo costretti ad assistere a parate e cortei di gente che indossano magliette con il logo di Disneyland e la scritta “Auschwitzland“, oppure di personaggi che vestono le divise in orbace, che sventolano bandiere della repubblichetta di Salò e che inneggiano a Mussolini violando apertamente la Carta del 1948, nonché la Legge Mancino.

Se è legittimo vendere busti, bandiere, portachiavi, manganelli con scritto sopra “Me ne frego!“, calendari un po’ in tutte le edicole d’Italia, bottiglie di vino tanto con Mussolini quanto con Hitler sopra le etichette, se tutto questo rimane possibile nel nome di non si sa bene quale “libertà di espressione“, oppure – più seriamente parlando! – della libertà di commercio, se sono tollerate le organizzazioni fasciste che si presentano alle elezioni oggi, sotto varie sigle e riferimenti al vecchio MSI, se tutto questo è fattibile, significa che la morale costituzionale, l’antifascismo come “religione civile del Paese” (come ebbe a descriverlo ottimamente Fausto Bertinotti) non è riconosciuto prima di tutto dalle istituzioni come discriminante per qualunque azione che provenga dallo Stato o che uniformi la Repubblica.

L’antifascismo lo si può anche mettere per iscritto, ma serve a ben poco se poi le istituzioni preposte non ispirano tutti i settori dello Stato di questa morale.

Nel corso della storia della Repubblica Italiana, per lunghi decenni il dibattito sullo scioglimento del Movimento Sociale Italiano ha percorso fiumi di parole e di articoli: le azioni squadristiche di chi era stato firmatario di manifesti di morte nei confronti dei partigiani, sostenitore del razzismo e, successivamente, riorganizzatore del neofascismo sotto molto poche mentite spoglie, sono state compiute sapendo che si poteva abusare dello spirito liberale della democrazia italiana.

Ma una democrazia che rispetta le sue regole al punto da consentire che vengano violate nel nome delle medesime, è davvero una democrazia? Non è piuttosto una estremizzazione pericolosa di concetti come “la libertà è anche quella di rifiutarla“, che manifesti del PSI – non troppo tempo fa – mettevano in bella mostra durante le celebrazioni del 25 aprile?

Se nel difendere la democrazia si arriva a permettere ai peggiori bassi istinti, che si esprimono in linguaggi e atti violenti, nel consentire lo sfogo di veri e propri odiatori seriali spargitori di odio, disprezzo, pregiudizi ed efferatezze che si riversano sempre e soltanto sui più deboli, su chi ha un colore della pelle differente dal nostro, sugli omosessuali, su coloro considerati “inferiori” per “razza” o “etnia“, se tutto questo fuoriesce dal principio della “difesa della democrazia“, allora ne consegue che più che una difesa della medesima siamo al passaggio ad una “democrazia autolesionista“.

Quella democrazia che eminenti esponenti politici della sinistra moderata d’un tempo volevano difendere formalmente, l’hanno negata nella pratica ogni giorno ai lavoratori nelle fabbriche, ai giovani nelle scuole e in ogni momento della loro vita in cui sono costretti a fare i conti con i tanti torti sociali, le ristrettezze economiche e la differenza di classe così ampia che rimane nel Paese e che si acuisce di giorno in giorno grazie alle politiche sempre meno sociali e sempre più privatistiche e liberiste.

Le ferite economiche rimarginatesi nel dopoguerra con il “boom“, sono state riaperte in questi ultimi decenni non da nuovi conflitti bellici ma da una separazione molto dinamica e sempre più ampia tra classi sociali modernamente sfruttate attraverso il loro lavoro e ceti benestanti protetti con scudi fiscali per quanto riguardava le tassazioni, con incentivi per quanto concerneva i piani di accordo sul mercato industriale, tutelando tutti i loro privilegi con un liberismo che ha sempre preso ai meno abbienti per garantire i privilegiati già enormemente protetti con la mediazione dei governi di turno.

Può un Paese dove non si coltiva la giustizia sociale poter riconoscere nella Repubblica democratica, antifascista, laica e civile un modello cui aspirare? Forse non sarebbe meglio volgere lo sguardo alla dittatura? All’uomo forte solo al comando, magari rievocando “pieni poteri” in piazze festanti e acclamanti ad ogni slogan pieno della più vuota banalità del male contro altri deboli, contro altri dannati della terra?

L’ampliarsi delle differenze di classe ha impedito a questo Paese di poter convincersi che la Repubblica, che la Costituzione fossero lì a proteggere loro, i più deboli, i meno difesi, i più colpiti, i meno garantiti da uno stato sociale pressoché inesistente: da queste larghe fasce di popolazione arrivano le schiere di nuovi votanti per i partiti della destra, per i neofascisti che hanno buon gioco nel dimostrare tutte le lacune e insufficienze del sistema democratico.

Lo fanno, si intende, dichiarandosi loro stessi per primi all’interno dello spirito costituzionale, nonostante lo violino ogni parola che pronunciano…

Immediatamente dopo la guerra, negli anni ’50 e ’60 il tabù sul fascismo era diffuso e lo stigma era – apparentemente – unanimemente condiviso. La ferite lasciate dal conflitto erano ancora così vive da impedire a chiunque di esibire la propria fede fascista come idea, come pensiero libero in una libera Repubblica democratica. Ma il Paese rimaneva comunque diviso: chi non rimpiangeva Mussolini non è detto che amasse i partigiani, per svariati motivi. In tantissime famiglie si contavano giovani morti nell’esercito regolare mandato a crepare in Africa, in Francia, in Grecia, in Russia… Altri figli erano caduti per mano dei repubblichini; altri per mano dei partigiani. Le stragi nazi-fasciste, le devastazioni dei paesi e delle città; le deportazioni in massa di operai, di oppositori politici, di ebrei. Gli esili e i confinamenti…

La democrazia repubblicana del dopoguerra avrebbe avuto il compito difficilissimo di ricongiungere Italie così diverse, segnate da solchi profondi nelle menti e nei cuori, nelle azioni e nei sentimenti. L’azione politica non ha aiutato la democrazia a rafforzarsi: se alla fine degli anni ’80 si fosse evitata una amnistia morale invocando una “pacificazione” che, soprattutto nella sinistra moderata, sembrava necessaria per depotenziare gli estremisti di destra, probabilmente non dovremmo ancora oggi dissertare se sia giusto o meno erigere un mausoleo all’uomo che, come ha bene sintetizzato David Parenzo in una puntata de “La Zanzara” su Radio 24, ha compiuto un “omicidio plurimo di massa” nel corso del ventennio fascista.

Quando ci diciamo “antifascisti” dovremmo anche pensare se lo siamo sul terreno della proposta sociale, se ai valori della libertà associamo quelli dell’uguaglianza. Per troppo tempo l’antifascismo è stato utilizzato trasversalmente per dimostrare che le libertà civili possono convivere in un sistema economico e politico votato alla garanzia del privato, del privilegio di classe.

Per troppo tempo l’antifascismo è stato incluso nel contesto di una crescita realmente diseguale tra formalmente uguali. Anche in questi termini occorrerebbe riflettere quando ci accorgiamo che prepotentemente avanzano, senza vergogna alcuna, proposte di intitolazioni di vie, piazze, giardini a criminali fascisti e neofascisti: atti non meno gravi del ridurre la storia ad un fatto di turismo per Predappio dove si continuano a vendere “innocenti” profumi, statuette e collanine raffiguranti il fascio littorio, il profilo di Mussolini e quello di un Paese che sembra avere sempre due facce e nessun vero volto.

MARCO SFERINI

8 agosto 2020

foto: Wikipedia

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