Tassare gli extraprofitti è tutta un’altra cosa…

Si deve accettare che una parte anche significativa dell’opera di un governo sia intrisa di propaganda e, anzi, che proprio da questa stessa spesso le impostazioni programmatiche di un...
Giorgia Meloni

Si deve accettare che una parte anche significativa dell’opera di un governo sia intrisa di propaganda e, anzi, che proprio da questa stessa spesso le impostazioni programmatiche di un esecutivo vengano modificate in virtù del “comune sentire“, del non distanziarsi troppo dai desiderata dell’elettorato.

Però, altrettanto spesso accade che siano i governi ad eterodirigere, per l’appunto propagandisticamente, gli umori delle piazze e a condizionarle con una riformulazione spesso peggiorativa degli intenti mostrati (piuttosto che dimostrati e dimostrabili) durante i comizi e gli incontri nel mese antecedente il voto politico.

Fa parte della dialettica anche democratica, di un rapporto di avvicinamento e di distanza al tempo stesso tra cittadini ed istituzioni. Sarebbe nelle regole del gioco, quindi, se non fosse che, come accade per le decretazioni di urgenza e per altri provvedimenti di esclusiva pertinenza di Palazzo Chigi, si tende ad abusare di questo scambio endogenamente viziato dalla tendenziosità di una parte, nello specifico quella della maggioranza che sostiene il governo.

E quando si abusa della dialettica parlamentare da un lato, riducendola a formale trattativa dialogica tra una opposizione fin troppo dialogante al centro e scarsamente energica a sinistra, mentre dall’altro si addomesticano le masse ad avere una opinione precostituita e preconcetta degli atti dell’esecutivo, si finisce col perdere il senso persino del ridicolo.

Ed è esattamente quello che è accaduto (ed accade) con la vicenda delle tassazioni degli extraprofitti bancari. Non c’era occasione più ghiotta di questa per dare la dimostrazione che il governo Meloni è un governo che non sta con l’alta finanza, con i banchieri, con i poteri forti. Insomma, tutto tranne un coacervo di amici dei ricchi e dei supericchi.

Nei malpresi appunti della settimana, la Presidente del Consiglio annuncia una serie di provvedimenti che andrebbero, prelevando dagli indebiti introiti degli istituti di credito, a sanare una serie di ferite sociali completamente aperte, per nulla sua via della guarigione.

Tutto questo mentre sul salario minimo si azzardano tesi contorte, prive di un riscontro oggettivo e supportate soltanto da un apriorismo meta-ideologico che risponde esclusivamente alla necessità del governo di soddisfare gli interessi del campo liberista senza se e senza ma.

Sostiene Giorgia Meloni che la sua è una lotta contro i salari bassi e che, quindi, se fatta con la misura del minimo per Legge di una paga oraria non riducibile a piacimento da impresa ad impresa, finirebbe con l’avere l’effetto opposto del miglioramento delle condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori e smentire la contrattualità sindacale di CGIL, CISL e UIL che riguarda circa il 95% degli accordi scritti stipulati con le controparti padronali.

Sostiene sempre Giorgia Meloni che la sua, essendo una causa sociale, che va nella direzione della protezione dei più fragili settori della popolazioni, quelli colpiti da una indigenza post-pandemica e tutta dento una economia di guerra, non può non tenere conto di un prelievo degli extraprofitti. Lodi da destra (ovviamente), dal centro (ovviamente) e anche da una parte della sinistra (molto meno ovviamente).

Un entusiasmo che rasenta l’isteria politica di massa, perché finalmente un governo mette mano nelle tasche profonde delle banche. Ma l’apparenza inganna. E dovrebbe essere un campanello d’allarme il modo con cui Palazzo Chigi tratta qualunque proposta di introduzione di un salario minimo orario in questo Paese che si va presentando come moderno, democratico, capace di innovazione sociale, civile e di accrescimento morale ed umano.

Di per sé la piattaforma rivendicativa delle opposizioni sul salario sociale è riduttiva e al ribasso, per almeno tre motivi:

1) nove euro l’ora invece dei dieci proposti da Unione Popolare;

2) nessuna indicizzazione riferita al costo della vita, a differenza sempre della proposta di UP;

3) una parte della cifra necessaria da mettere a bilancio per il finanziamento del provvedimento sarebbe a carico dello Stato e, quindi, sarebbero gli stessi lavoratori che si pagherebbero il loro stesso salario minimo, invece che essere completamente a carico dell’impresa.

Se a questo si aggiunge la storia pregressa sui tentativi di introduzione di una paga minima all’ora inderogabile per Legge, si scoprirà che alcuni dei sostenitori dell’oggi, ieri ne erano assoluti detrattori. Il quadro che ne viene fuori è abbastanza desolante.

Da un lato il governo finge propagandisticamente di essersi finalmente accorto delle enormi eccedenze guadagnate dalle banche in questi ultimi anni (si parla di decine e decine di miliardi) e di intervenire per recuperare il maltolto con una percentuale di prelievo dello 0,1% su un monte totale di attivi, derivati dalle capitalizzazioni degli aumenti dei tassi di interesse, pari a 3.200 milardi di euro.

Dall’altro le opposizioni parlamentari (e nemmeno tutte quante) si apprestano a difendere una proposta che, rispetto al niente è certamente qualcosa, ma che non è sufficiente a garantire un salario decoroso e dignitoso (leggasi: per poter vivere e non sopravvivere di mese in mese). Con il prevedibile aumento dell’inflazione nei prossimi mesi autunnali, risulta abbastanza lapalissiano il calo del potere di acquisto delle paghe delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti.

Un chilo di pane oggi sfiora i sette euro, la verdura e la frutta sembrano gioielli di grande arte orafa invece che ortaggi esposti nelle cassette sui banchi dei supermercati, mentre un pieno di benzina, nonostante il raffronto con i prezzi medi settimanali scritti su grandi cartelli in ogni distributore, proprio in questi giorni sale da 1,87 euro al litro ad oltre 1,92.

Ma gli appunti che Giorgia Meloni ha preso dicono che l’economia sarà presto in ripresa e che, proprio grazie all’azione di governo, quel 10,5% in più dei prezzi dei beni alimentari e del costo delle manutenzioni casalinghe (cifre certificate dal paniere dell’ISTAT) sarà ridimensionato.

E non grazie al reddito di cittadinanza praticamente oggi lettera morta; nemmeno grazie alla tassazione del 40% degli extraprofitti promessa in campagna elettorale dalle destre e riaffermata ora come aliquota per le eccedenze del 5% nel 2022 e del 10% nel 2023.

Ma, stupor mundi, in virtù di investimenti del PNRR che, almeno fino ad ora, sono finiti quasi tutti nelle tasche dei privati, con un taglio di finanziamenti ai comuni che ha fatto sollevare buona parte dei sindaci interessati da progetti di riqualificazione urbana, strutturale e infrastrutturale.

Almeno su un dato le opposizioni sono concordi: ci sono tre milioni e mezzo di lavoratori che sono completamente estranei a qualunque tipologia di contrattazione e che non percepiscono, quindi, nessuna tutela in merito. Ce ne sono altrettanti che sono in condizioni di disagio così profonde da non riuscire più a determinare un punto di svolta nell’immediato per una povertà tanto crescente quanto inquietante sul piano sociale.

La risposta del governo è quella del liberismo classico: la riduzione del potere di acquisto dei salari è contenibile soltanto “una tantum“, con dei bonus che, se divisi per i trecentosessantacinque giorni dell’anno, lasciano in tasca al singolo operaio, alla singola impiegata precaria pochi, miseri centesimi di euro.

Non si pensa, quindi, di agire secondo i princìpi costituzionali della giusta retribuzione, ma secondo i dettami del mercato che riguardano ovviamente il giusto profitto. Laddove per “giusto” si deve intendere l’accumulazione di risorse che provengono dallo sfruttamento massivo di un lavoro sempre meno garantito, privo di qualunque alternativa nel caso venga meno come unico supporto di vita dignitosa tanto per il singolo quanto per la famiglia.

Ecco come il governo intende occuparsi della sacralità della famiglia: la abolisce nello stesso modo in cui la aboliva la borghesia otto-novecentesca, nel momento in cui le rendeva impossibile l’esistenza a causa del bassissimo tenore di vita, della povertà incedente, dell’incapacità del capitalismo di affrontare le proprie crisi sacrificando parte dei suoi profitti per allargare la base salariale e per permettere un’espansione – seppure temporanea – della domanda.

Mentre in questi ultimi anni i salari si riducevano del 20% riguardo la loro capacità di acquisto, gli extraprofitti bancari e delle grandissime industrie arrivavano a segnare un +80% rispetto ai periodi pre-Covid. La bilancia della diseguaglianza segnava quindi uno squilibrio ulteriore e veramente grande nell’allargamento della forbice tra ricchezza e povertà e, in particolare, tra benessere privato e benessere sociale.

La destra di governo tenta di recuperare una parte della sua storia popolare, peraltro fintamente sociale, ponendo la tassazione delle eccedenze profittuale al 40%, lasciando così sempre agli istituti bancari ben oltre la metà di quello che hanno sottratto alle tasche della povera gente aumentando i tassi di interesse sul denaro in prestito.

Questa è davvero possibile chiamarla “giustizia sociale” o “destra sociale“? Chi applaude a misure ingannevoli come queste dimentica, o ha interesse a dimenticare, che la maggioranza che fa capo a Giorgia Meloni non è al governo per tutelare il mondo del lavoro ma per cercare il compromesso più alto possibile con le imprese dal punto di vista solo delle imprese stesse.

L’imbarazzo del PD in questo frangente è davvero imbarazzante. Una forza progressista vera non dovrebbe lasciarsi nemmeno per un istante pervadere dal dubbio che il governo stia facendo qualcosa che va nella direzione della protezione dei ceti più deboli, delle classi più disagiate e in sofferenza economica e sociale.

Una forza progressista dovrebbe, insieme alle altre opposizioni che si dicono “progressiste“, unirsi alla richiesta di rendere il salario minimo per Legge un dato costituzionale, un elemento fondante la Carta del 1948, una pietra angolare del vivere civile di un Paese che non può tollerare che i banchieri guadagnino l’80% in più dell’anno prima, mentre i lavoratori perdono il 20% del loro salario in dodici mesi…

La sproporzione è enorme, mastodontica, inarrivabile anche per delle riforme di struttura che possono riportare alla mente i tentativi di socialdemocratizzare la politica italiana di fine ‘900 e di inizio del nuovo millennio. Plaudire anche mestamente a quello che pare un tratto coscienzioso, da mano sul cuore, da parte del governo Meloni, è sintomo di una immaturità culturale, politica e sociale veramente disarmante e deprimente.

Portare in Parlamento la proposta di Unione Popolare è davvero il minimo che possiamo fare: dieci euro all’ora, legati alla crescita inflazionistica e il tutto a spese degli imprenditori. Che non vorrebbero rinunciare ad un centesimo dei loro profitti, così come non rinunciano ad un minuto di sfruttamento per i loro dipendenti.

MARCO SFERINI

10 agosto 2023

foto: screenshot tv / web

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