«Spetta al popolo asiatico gestire gli affari dell’Asia». Otto anni dopo aver pronunciato questa frase, Xi Jinping guida una Cina più assertiva e più armata, militarmente e diplomaticamente.

Ma la sua fortezza è scossa da turbolenze esterne e manovre ostili. Al XIX Congresso, Xi espresse il desiderio di avvicinare la Cina «al centro della scena» attraverso il modello con caratteristiche cinesi.

Nella retorica del Partito, è un modello non destinato a rovesciare quello esistente ma semmai integrarlo in un sistema globale basato sul multipolarismo.

Il segretario generale elencherà tutti i modi in cui è riuscito nel suo intento, per poi avvisare che per tutelare i suoi interessi e raggiungere i suoi obiettivi «entro la nuova era» si dovranno superare «sfide severe». In tanti discorsi e documenti recenti, si parla esplicitamente di «lotta sulla strada da percorrere».

Nel suo primo decennio, Xi ha completato la riforma dell’Esercito popolare di liberazione, raddoppiandone il budget e aumentandone l’arsenale nucleare. Il ruolo a cui tiene di più è forse proprio quello di capo della Commissione militare centrale dove il fidato generale Liu Zhenli pare destinato ad assumere il ruolo di capo del Dipartimento di Stato maggiore.

Pechino sa che la contrapposizione con gli Usa può cambiare tonalità, ma non sparire. L’amministrazione Biden non ha cambiato approccio e il balletto tra Casa bianca e Nancy Pelosi sulla visita a Taipei ha convinto Pechino che al di là delle intenzioni individuali l’apparato americano abbia deciso di considerare la Cina una minaccia.

Dinamiche che hanno portato Pechino più vicina a Mosca. L’amicizia «senza limiti» ha mostrato di avere qualche confine, ma Xi non «mollerà» Putin: è funzionale alla sua narrazione e l’accresciuta dipendenza della Russia (un tempo scomodo fratello maggiore) fornisce vantaggi commerciali, politici e retorici.

Chiedere il rispetto delle «legittime preoccupazioni» di Mosca e Pyongyang, per Pechino significa ribadire che è un occidente a guida Usa (con le proiezioni di Quad, Aukus e Ipef) a proiettare «mentalità da guerra fredda» gettando «benzina sul fuoco» di potenziali conflitti. Una narrativa che Pechino già utilizza e utilizzerà ancora di più per raccontare quello che accade in Asia-Pacifico, a partire dallo Stretto di Taiwan.

La Cina è convinta che i paesi del Sud-Est asiatico eviteranno di fare una scelta di campo ma teme che alcuni, in primis le Filippine di Marcos Jr., potrebbero tornare all’ovile americano se costretti. E i problemi col vicinato non mancano.

Dopo i violenti scontri del 2020, ci sono stati segnali di disgelo con l’India. Nuova Delhi ha spostato a Congresso finito le esercitazioni con gli Usa a pochi chilometri dal confine conteso.

Ma le tensioni sono pronte a riaccendersi, dalle questioni territoriali alla successione del Dalai Lama. Dopo il lento riavvicinamento con Shinzo Abe, le relazioni col Giappone sono ai minimi termini. Ora la Cina teme che la Corea del Sud possa «giapponesizzarsi». Yoon Suk-yeol ha rilanciato in piena regola i rapporti trilaterali con Giappone e Usa.

Il prossimo test nucleare di Kim Jong-un, il primo dopo 5 anni, sembra ormai solo questione di tempo e potrebbe portare a un rafforzamento delle manovre nel mar Cinese orientale. Una minaccia, ma anche un’opportunità per Xi per rilanciare il suo ruolo di «connettore» con Pyongyang.

Come sempre, la Cina sa rimodulare iniziative e retorica. Il primo decennio di Xi è stato caratterizzato dalla Belt and Road. Negli ultimi mesi prende invece corpo la Global Security Initiative. Pensato soprattutto per i paesi in via di sviluppo, il programma vuole convincere i protagonisti del suo mondo multipolare del suo ruolo di garante della stabilità.

Economica, attraverso gli investimenti. Ma anche politico-sociale, come dimostrano gli accordi sulla sicurezza sottoscritti con le Isole Salomone. La Cina di Xi non fomenta rivoluzioni ma aiuta a mantenere l’ordine. Anche con la tecnologia, vedi i numerosi accordi sui dispositivi di sorveglianza con paesi africani o dell’America latina.

Schema riproposto al recente summit Sco di Samarcanda, dove Xi ha giocato da padrone di casa e si è elevato a tutore della sicurezza, con riferimento esplicito alle «rivoluzioni colorate» sobillate dall’occidente e implicito alla Russia.

Ma un’altra parola chiave del terzo atto di Xi sarà «autosufficienza». Soprattutto tecnologica, visti i venti di decoupling che spirano da Washington.

Xi mette sul piatto 400 miliardi di dollari di importazioni di semiconduttori all’anno ed è convinto di poter evitare una cesura totale, facendo pesare anche la leadership su 5g, batterie e terre rare. Dopo anni di zero Covid e l’azzeramento degli scambi culturali, la Cina di Xi appare sempre più inaccessibile.

LORENZO LAMPERTI

da il manifesto.it

Foto di zhang kaiyv