Perché caschiamo sempre nel vortice della guerra?

La guerra non ha pregi. Attribuirle il potere di svelare la natura umana nei momenti della storia in cui prendono fuoco le contrapposizioni tra i poteri che sottomettono o...

La guerra non ha pregi. Attribuirle il potere di svelare la natura umana nei momenti della storia in cui prendono fuoco le contrapposizioni tra i poteri che sottomettono o gestiscono i popoli, sarebbe una ingenerosità.

Sebbene vada riconosciuto che, nonostante si cerchi di estromettere dal cammino distopico della (dis)umanità il maggior numero possibile di conflitti, di eventi che sono votati all’annichilimento della specie piuttosto che alla sua conservazione, la guerra fa parte a pieno titolo di un lato caratteriale che si esprime in molte e molti di noi.

La conflittualità è parte della dialettica, del rapporto che abbiamo con i nostri simili, con gli altri esseri viventi e con la natura stessa. Allargando proprio fisicamente, per un attimo, i confini degli incontri e degli scontri che ne possono derivare, andando oltre la ionosfera, proiettandosi per alcuni istanti nell’universo, diventa fin troppo oggettivo il fatto che il caos fa parte delle leggi che regolano la materia.

Ma, naturalmente, c’è caos e caos: se quello “naturale” non si può fermare e non vi si può opporre, viste le proporzioni dello spazio in cui si manifesta, per quanto riguarda invece ciò che avviene su questo disgraziato pianeta siamo noi esseri (dis)umani i principali responsabili, pur rappresentando una parte infinitesimale della vita sulla Terra: 7,6 miliardi di persone sono pari allo 0,01% di ogni forma vivente.

Una premessa necessaria per riportarci alle dimensioni esigue del problema delle guerre nell’economia del macroscopico, dell’universale nell’universo stesso e per farci capire con chiarezza critica, invece, quanto grande diventi mentre torniamo nel particulare nostro, nella microbicità terrestre, nella mediocrità umana.

E’ forte la tentazione di farne un discorso moralistico, ponendo una condanna alle guerre guardando la straordinarietà del cosmo, le bellezze naturali, la pacificità sostanziale di una natura dove gli animali non umani guerreggiano tra loro istintiviamente, guidati da gerarchie altrettanto tali che mettono a capo del branco il più forte, quello che riesce a sopravvivere alle avversità circostanti e che, grazie a questa capacità, riesce a trarre in salvo anche gli altri.

La lotta per la sopravvivenza degli animali non umani fa parte della naturalità espressa in forme e modi molto differenti; tuttavia con tratti comuni, perché – studiando un po’ l’evoluzionismo darwiniano e i suoi derivati – l'”animalità” è quel tratto distintivo dal resto della vita sul pianeta.

Noi uomini e donne, che ci consideriamo superiori ad ogni altra specie per capacità intellettive, per discernimento tra bene e male e, quindi, per lo sviluppo di una coscienza affinata nei millenni, siamo gli unici esseri a stabilire dei rapporti di forza uguali e contrari al nostro interno e a farne la base “economica” (nel senso lato del termine) per lo sviluppo inverecondo dello specismo (rispetto alle altre forme di vita senzienti e alle relazioni con il resto della natura) e del razzismo (rispetto alla nostra stessa cosiddetta “specie“).

Le nostre guerre innaturali, create a tavolino da quella intelligenza che, inevitabilmente, cede all’astuzia molte delle sue capacità, sono per lo più fondate sul connubio tra interesse particolare, di una determinata comunità, e il raffronto tra questo e gli altri interessi determinatisi nel corso di quelle lotte di classe che hanno attraversato le fasi costituenti della storia umana.

Il tema che si pone, quindi, è provare a capire se la conflittualità naturale tra i viventi è destinata, in un certo modo quasi “naturalmente“, a pervertirsi nella più cruenta forma di nichilismo possibile: la guerra, l’annientamento consapevole nel nome della sopravvivenza di una parte sul tutto, quindi di un interesse particolare sull’interesse globale.

Nell’epoca ormai consolidata della globalizzazione capitalistica, nella sua moderna espressione liberista – dove la prevalenza del privato ha ridotto ogni margine di stato-sociale, ogni tutela pubblica e ogni tentativo di “benecomunismo” anche in salsa socialdemocratica o liberaleggiante di sinistra – cercare di comprendere fino a che punto può spingersi l’autoannullamento (dis)umano non è una dissertazione accademica, ma una necessità oggettiva, contingente e persino molto impellente visti gli attuali tragici sviluppi della guerra in Ucraina.

Il conflitto tra Mosca e Kiev, come abbiamo già abbondantemente scritto, non è comprensibile da un punto di vista geopolitico se non si fa riferimento ad un ampio spettro di compenetrazione di analisi che tocchino tanto la storia di quella specifica parte d’Europa e del mondo, quanto le circonvoluzioni economiche che sono oggi a fondamento delle trasformazioni capitaliste continentali.

Il conflitto umano, pur inserito nella oggettiva dialettica tra gli esseri viventi e la natura (e viceversa), finisce per fuoriuscirne, debordarne per un disvalore aggiunto, per un eccesso di scontro che riguarda proprio il carattere autodistruttivo delle nostre guerre: una peculiarità che crea un nocumento nei confronti do tutto il resto del pianeta. Dunque, lo 0,01% dei viventi presenti sulla Terra è proporzionalmente inverso al rapporto che anche conflittualmente dovrebbe avere nel processo dialettico globale: siamo pochissimi ma abbiamo quasi sempre rappresentato un potenziale distruttivo enorme per noi stessi e per le altre specie.

Con l’accelerazione scientifica novecentesca, la minaccia umana verso gli umani e verso il resto del mondo è diventata addirittura una minaccia totalizzante, nucleare, prospettando addirittura l’estinzione su scala universale, la cancellazione della complessa trasformazione della materia arrivata, dopo miliardi e miliardi di anni, su questo sassolino dell’universo, a concretizzarsi nella punta estrema della percezione, quella più avanzata: la consapevolezza di sé stessi e di ciò che ci circonda. O, quanto meno, il tentativo di capirci e di capire, di indagarci e di indagare ciò che ci circonda.

Questa straordinaria evoluzione, che la natura ha determinato con le sue trasformazioni, noi proviamo costantemente a metterla a rischio di esistenza. Sottoponiamo ad uno stress continuo ogni altra forma di vita: ce ne appropriamo praticamente da sempre e, anche quando oggi potremmo fare un salto di qualità, provando a vivere senza dominare niente e nessuno, ma mettendoci al servizio di noi stessi e delle altre forme di vita, scopriamo di essere prigionieri di rapporti economici che istruiscono i poteri definiti e li governano.

Per questo fare la morale alla guerra è inutile, sciocco e anche dannoso: ci svia dal problema dei rapporti di classe, dei rapporti socio-economici che sono la vera chiave di volta di molti, tanti problemi del genere umano e delle sue relazioni col resto del mondo e dell’universo.

Potrà sembrare paradossale, ma non siamo più soltanto un danno per il pianeta Terra. Lo stiamo diventando anche per lo spazio che ci è più vicino: stiamo inquinando l’atmosfera da secoli e lo stiamo facendo senza badare alle conseguenze, perché rientrare nel rispetto della naturalità dell’eco-sistema costerebbe a chi non vuole perdere profitto, potere e dominio.

Stiamo inquinando anche lo spazio che va oltre quel buco nell’ozono di cui si è parlato tanto e per cui si è fatto così poco: sempre più rifiuti di satelliti, missili, carcasse e cadaveri di stazioni spaziali vagano attorno alla Terra. Li chiamano “detriti“, perché sono scorie, rifiuti, cose che non pensiamo nemmeno di recuperare e smaltire. Vengono lasciati alla deriva, nel vuoto cosmico, attratti soltanto dalla forza dell’atmosfera: ce ne sono così tanti che persino i voli di linea devono usare il diagramma di Gabbard per farsi spazio tra questi asteroidi artificiali…

Come è evidente, le nostre guerre si moltiplicano: quelle tra noi animali umani, quelle tra noi e gli animali non umani, quelle tra noi e la natura. Universo assolutamente compreso. E’ fin troppo semplice crearsi un alibi, sminuendo la tentazione che quotidianamente abbiamo di far prevalere la morte sulla vita, l’odio sull’amore, i pregiudizi sulle oggettività, asserendo che il conflitto fa parte della nostra essenza umana e che, pertanto, è inalienabile da noi stessi, non stornabile dall’esistenza singola e dalla collettività.

Dobbiamo essere capaci di evolvere veramente e di farlo con questa consapevolezza: che quegli opposti che ci abitano, “eros” da un lato e “tanatos” dall’altro (per dirla con un Freud che risponde ad un Einstein che lo interrogava proprio sulla ciclicità della guerra nella storia umana e sull’origine di questa perversione costante), continueranno ad essere in lotta fra loro ma che questo, di per sé, non vuol dire che quel rapporto dialettico giustifichi di per sé la prevalenza dell’uno sull’altro.

Siamo noi a dover difendere con coscienza e, quindi, con convinzione, le ragioni che ci portano a ritenere migliore una vita dove ragione individuale e ragione sociale convivano e si compenetrino vicendevolmente. Nel momento in cui uno di questi due piani prende il sopravvento sull’altro, se per esempio il privato domina sul pubblico e pretende di stabilire che alcune regole valgono più di altre, che alcuni diritti prevalgono su quelli universali, il conflitto, la guerra, di qualunque portata, è sempre drammaticamente possibile.

La nostra complessità cerebrale va utilizzata per migliorare l’esistenza di tutti gli esseri viventi di questo pianeta. Va usata per rimuovere quegli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono il pieno sviluppo di chiunque (la nostra Costituzione ci è maestra in questo…). Non serve la morale per mettere in pratica tutto questo: serve prima di tutto una volontà dal basso, visto che la verticalità, se non controllata dall’orizzontalità, è la direttrice migliore per la formazione e la crescita della corruttela e della dispersione delle buone intenzioni legate alla difesa dei bisogni sociali, collettivi.

Il “benecomunismo“, inteso proprio come la ricerca del bene comune, è un concetto ancora molto vago e non definisce né una corrente di pensiero univoca, né un movimento politico dalle aspirazioni globali. Potrebbe essere una prospettiva da cui osservare meglio tutto questo… E chissà che non lo diventi proprio mentre la guerra apre una nuova fase costituente nelle disgraziate nostre esistenze.

MARCO SFERINI

25 marzo 2022

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