L’Ue nella trappola delle priorità nazionali

Un proverbio popolare illustra piuttosto precisamente il cuore del gran lavorio intorno alla cosiddetta Fase 2: «Chi tardi arriva, male alloggia». A livello europeo, come a livello globale. Come...

Un proverbio popolare illustra piuttosto precisamente il cuore del gran lavorio intorno alla cosiddetta Fase 2: «Chi tardi arriva, male alloggia». A livello europeo, come a livello globale. Come sarà il mercato all’uscita dalla fase acuta della pandemia e in presenza di un suo procedere occulto e imprevedibile nessuno può dirlo, ma l’idea dominante sembra essere, fuori dalla retorica del passaggio epocale, che non si discosterà di molto da quello che abbiamo conosciuto. Così resta determinante la corsa a riaprire per primi le attività produttive.

Per non cedere terreno alla concorrenza, per conservare fette di un mercato che però sarà presumibilmente minacciato da una crisi di sovrapproduzione. Non serve troppa perspicacia per vedere come l’andamento diseguale dell’infezione, le risorse accumulate in precedenza, i tempi sfasati della diffusione virale pongano gli attori economici in posizioni molto differenziate (questa volta senza pretesti meritocratici). Di qui la propensione a correre rischi per compensare gli svantaggi. L’impresa non è forse il regno del rischio? Ma in questo caso non tanto quello degli imprenditori quanto quello della vita dei loro dipendenti e in conseguenza di molti altri.

Non vi è insomma dubbio che la crisi epidemica alteri radicalmente nella sostanza le sacre leggi della concorrenza ma, al tempo stesso, le conservi o addirittura le inasprisca. Cosicché le strategie di riapertura dei diversi governi, i criteri più o meno accomodanti nella raccolta e nell’interpretazione dei dati risulteranno fortemente condizionati dalla volontà di garantire competitività alle proprie economie. Con buona pace di quelle regole che nell’Unione europea pretendevano di salvaguardare la purezza dei rapporti di mercato, stigmatizzando come la peggiore delle eresie l’intervento degli stati a sostegno delle imprese e dell’occupazione.

Ora che il quadro della concorrenza è dettato dalle incerte linee di sviluppo dell’epidemia, i suoi custodi europei tacciono. Fingendo di non sapere che la corsa alla riapertura delle attività rientrerebbe a pieno titolo nell’alveo di quella eresia, con un buon tasso di azzardo e di cinismo in più. A livello dei singoli stati la regola esclusiva del mercato viene ripetutamente trasgredita, ma a livello europeo resta il regolatore indiscusso dei rapporti tra paesi in competizione fra loro. Se qualcosa abbiamo appreso in maniera definitiva dell’Unione europea è che le situazioni di crisi (quella finanziaria prima, quella dei rifugiati poi, quella pandemica infine) accentuano i caratteri «sovranisti» incistati nella sua costruzione e gli squilibri che la attraversano. Sempre più vicina al momento del collasso o all’istituzionalizzazione della sua struttura sostanzialmente gerarchica. Nell’attuale chiusura dei confini e nella conflagrazione degli interessi nazionali si staglia sempre più nitidamente l’aleatorità della cittadinanza europea. E la debolezza del Vecchio continente destinata a ripercuotersi su ognuno dei paesi che lo compongono.

Tutto sembra indicare che la gravità della crisi che stiamo attraversando non stia inducendo ripensamento alcuno sui limiti dell’Unione. Semmai il contrario. La trappola delle priorità nazionali è pronta a scattare. Starebbe alle forze sociali il compito di non rimanervi imprigionate.

L’accumulazione è sottesa, come sappiamo, da una logica che impedisce qualunque passo indietro o battuta di arresto. Impone semmai, costi quel che costi, l’adattamento alle condizioni date per quanto catastrofiche possano rivelarsi. Ma l’accumulazione della ricchezza, individuale o nazionale, presenta anche un’altra prerogativa: la possibilità di reggere meglio e più a lungo l’impatto di una crisi. Ovvero di vincere una guerra, non contro un virus, meccanismo di morte che non risponde ad alcuna dinamica bellica, ma contro ogni attenuazione delle diseguaglianze, contro ogni attentato alle situazioni di privilegio, a garantire insomma una indiscussa posizione di potere.

Fino ad oggi si è ampiamente ragionato su chi e quanti l’epidemia condurrà alla rovina. Su quello che si perderà in termini di redditi e risorse. Ma come è noto nelle catastrofi c’è sempre qualcuno che ci guadagna (i fabbricanti di armi in tempo di guerra, per fare l’esempio più banale, o i costruttori in caso di terremoti) ed è anche su questo che converrebbe cominciare a ragionare (piattaforme di commercio on line? industria farmaceutica? settore delle telecomunicazioni? grande distribuzione alimentare? settori finanziari più solidi e potenti?) Non certo per gettare la croce addosso a qualcuno, o per fare del moralismo vendicativo. Piuttosto per capire come si distribuiranno le risorse di cui abbiamo bisogno e a da chi bisognerà pretendere che faccia qualche rinuncia a favore di una collettività ferita. Ma su questo terreno ogni singolo paese è impotente.

Solo l’Europa, a patto di contrastare gli interessi particolari dei suoi membri (per esempio tramite il dumping fiscale o altri privilegi concessi alle multinazionali), a sfruttare il proprio specifico rapporto con queste superpotenze economiche, potrebbe agire per una redistribuzione delle risorse e impedire che la crisi generi pochi vincitori e innumerevoli perdenti assoluti. Forse solo una fragorosa crisi sociali di inaudite proporzioni muoverebbe qualcosa in questa direzione. Quando il gregge non seguirà più il pastore in attesa di una salvifica immunità.

MARCO BASCETTA

da il manifesto.it

Foto di jacqueline macou da Pixabay

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