L’irriformabilità del potere e il dovere nostro di superarlo

Non si può chiedere ai governi di salvare il popolo ucraino, perché i governi sono, con i loro punti di riferimento economici e strategici, i principali artefici della guerra....

Non si può chiedere ai governi di salvare il popolo ucraino, perché i governi sono, con i loro punti di riferimento economici e strategici, i principali artefici della guerra. E non si può nemmeno chiedere agli Stati di fare la pace, perché hanno tutto l’interesse a proseguire questa e molte altre guerre che da decenni insanguinano le regioni più diverse del pianeta. Non ci si può, dunque, appellare a chi ha tutto questo potere per mettere da parte un po’ di potere, per limitarsi, per darsi quella regolata che servirebbe a far cessare le ostilità nel nome dell’umanità, della bontà e della fratellanza.

Ogni richiamo all’etica laica o religiosa che sia è e rimane soltanto quello: un cumulo di parole, di buone intenzioni che nessuno intende raccogliere. Ma l’ultima cosa che noi possiamo fare, noi che non apparteniamo a nessuno di quei circoli del potere che sovrintende, domina e regola la vita dei popoli, è dichiarare l’impotenza, la rassegnazione e passivizzarci, aspettando che le sorti del conflitto in Ucraina siano decise proprio, soltanto dai quantitativi di armi messi in campo.

Fin dalla nascita del movimento operaio, l’internazionalismo è stato uno degli assi portanti dell’alternativa sociale, culturale e politica messa in essere dal proletariato di allora e dai teorici di un nuovo mondo possibile. Non necessariamente significava ripudiare le proprie origini, fingersi d’essere altro da italiano, francese, tedesco o inglese; solamente voleva dire considerare la propria nascita in un determinato paese come frutto del caso e non come predestinazione divina, come elemento imprescindibilmente costitutivo dell’essenza umana che ci dovrebbe caratterizzare.

Noi siamo italiani, è ovvio. Siamo forse anche un po’ europei. Ma prima di tutto siamo esseri viventi che hanno in comune con tutti gli altri proprio quell’animalità umana che stentiamo a riconoscere dopo millenni di distinzione tra noi e gli altri animali. La nostra superiorità mentale, la nostra acuta intelligenza non ci è servita soltanto per migliorare le condizioni di vita di tutti, ma, come tutte le qualità, è stata comperata, utilizzata e fatta propria attraverso meccanismi che hanno confermato come la lotta tra le classi si sia dotata di armi ben più nobili dell’arma bianca prima e di quelle più letali, perché capaci di stermini di massa, nel passare dei secoli.

La migliore arma che la lotta della classe degli sfruttatori si è data nel corso del tempo è stata l’acquisizione del sapere, la conoscenza sempre più meticolosa della trasformazione naturale di qualunque cosa e della capacità umana di intrufolarsi nei piani della natura per modificarli a proprio piacere, mettendo avanti a tutto la sopravvivenza privilegiata, perché vita agiata rispetto alla miseria di tutti gli altri e alla schiavizzazione del resto degli esseri viventi, di una parte numericamente irrilevante della popolazione volutamente intesa come l’unica degna di questo epiteto. Noi stessi.

Il potere dei governi deriva dalla benedizione che ricevono dai poteri economici che regolano la vita di una nazione e dei sodalizi continentali costruiti per concorrere al dominio mondiale, ma deriva anche dal controllo che essi hanno sulla conoscenza, sul sapere e su come viene gestita quindi la comunicazione tra le persone e tra queste e le istituzioni che si illudono di aver scelto democraticamente.

La guerra in Ucraina, similmente al biennio pandemico, ci ha riproposto il tema della “verità” nell’apprendimento delle tante notizie che vengono dal fronte. Quale è la verità? Ma, soprattutto, quid est veritas? Ci sarebbe da perdersi per giorni e giorni nelle pagine più belle della filosofia, dell’antropologia e delle tante speculazioni scientifiche che hanno provato a trattare uno dei temi più affascinanti di ogni tempo, al pari del senso della vita, dell’universo, delle divinità, della morte. Tutti argomenti che non possono avere soluzione, quindi nessuna risposta definitiva. Fanno parte del grande pantheon dei misteri apodittici: tali sono e tali rimangono.

Si dice che la guerra sia il fallimento della politica. E’ una osservazione ragionevole, un po’ consolatoria, per commiserarci e scansare quel tanto di senso di colpa che ci permetta di credere che politicamente si possono risolvere ancora tante problematiche dell’animalità umana. Ed effettivamente solo facendo politica, quindi confrontandosi, dialogando e provando a scegliere quasi sempre l’arte del compromesso come unico metodo per arrivare a qualche concreto risultato, si può far avanzare una idea, una proposta sociale, un miglioramento delle condizioni di vita universali.

Paradossalmente, però, la guerra è uno degli stati in cui la politica dà il meglio del peggio di sé stessa. Nella contesa tra le parti vengono fuori quelle evidenze che travalicano i formalismi con cui si infiorettano solitamente i bei discorsi parlamentari di tanti partiti e movimenti. Chi ha provato, e prova tutt’ora, a dire come realmente stanno le cose, e quindi si carica sulle spalle buona parte della cattiva coscienza altrui, deve per forza essere maltrattato, irriso e considerato alla stregua del sognatore di turno, del folle, del pazzo che non sa bene dove si trova e vive completamente avulso dalla realtà.

A sentire certe discussioni nei dibattiti televisivi, viene voglia di mandare alla malora ogni istituzione, ogni compromesso, ogni politica (im)propriamente detta. Però, alla fine, prevale quell’istinto primordiale proprio di chi ha amato e ama la politica come arte, con una passione che in pochi possono comprendere veramente, perché si tratta di un rapporto più che altro soggettivo tra chi la vive e l’etereità dell’inconsistenza di una idea, di una voglia di fare la propria parte per provare a cambiare questa esistenza e farlo nel nome di quanto di più utopico possa oggi trovarsi tra i piedi chiunque si ritenga nel perfettamente giusto, nel perfettamente etico, nel perfettamente razionale e, peggio di tutto, nel perfettamente politico.

Se il potere non può – come ci ha insegnato Giordano Bruno – riformare sé stesso, cambiarsi radicalmente, è necessario che a imporre questo cambiamento sia chi è estraneo alla cerchia stessa del potere. Noi lo siamo. Quindi il cambiamento deve avvenire principalmente da noi stessi, uniti da una consapevolezza critica che ci derivi da uno studio attento delle cause e degli effetti che nella Storia si sono ripetute sia come prodotto sia come elemento condizionante i rapporti sociali. Rapporti che erano, sono e saranno sempre di natura economica: interessi materiali che determinano proprio il nostro essere nella sua totalità, comprendendo così quella coscienza che, troppo spesso, reputiamo separabile dai contesti in cui viviamo.

Lottiamo contro la propaganda di guerra, proponiamo la nostra verità, perché sia non quella per antonomasia, ma quella che più contrasta, sovverte e capovolge la narrazione del potere, dei governi, degli Stati. Non è un discorso anarchico questo, ma mi piacerebbe molto che lo potesse essere. Non lo è perché, alla fine, l’impegno cui dobbiamo votarci è il mutamento del potere e non la sua definitiva scomparsa. Almeno non per il momento. Il cambiamento presuppone che si tenga conto della vita di miliardi di persone, di centinaia di miliardi ai altri esseri viventi che continuiamo a considerare specisticamente “inferiori” (per essere chiari: gli aninmali non umani) e quindi l’estinzione del potere per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi presuppone una gradualità nel suo superamento.

Ma graduale non significa condiscendenza con l’esistente: si deve poter trattare da posizioni di forza e bisogna quindi creare questi presupposti. Non lo possono fare le segreterie dei partiti o i leader dei movimenti. Ma ogni nostra singola scelta deve essere “rivoluzionaria” proprio in questo senso: deve mettersi di traverso a qualunque fattore che impedisca una progressione ulteriore (fino a quella ultima) dell’alternativa di società, del superamento del capitalismo e, con esso, di tutte le discriminazioni esistenti: da quelle tra noi umani a quelle tra noi animali umani e gli animali non umani.

In nome di questo principio, ad esempio, votare contro Marine Le Pen al secondo turno delle presidenziali francesi non è certamente un atto che ci porta all’ultimo gradino del processo rivoluzionario di capovolgimento del sistema, ma ci fa evitare un passo indietro, perché, per quanto possa essere deprecabile il regime democratico – liberale di un Macron, è certamente meno trogloditico di un sovranismo neofascista che prescinde da importantissime conquiste che provengono dall’Illuminismo, dalla Révolution, dal difficile cammino umano fatto in questi ultimi secoli per poter affermare – come si sta facendo qui – tutta una serie di princìpi che oggi hanno dignità di essere tali e possibilità di essere ascoltati.

Le contraddizioni, del resto, abitano questo mondo da sempre: in particolare abitano noi stessi, la nostra esistenza controversa e controvertibile. C’è molta rabbia in queste parole che ho scritto. Forse c’è pure molta delusione per tante lotte che sembrano non essere servite a nulla. Ma non è così. Ciò che facciamo produce sempre qualche effetto. E’ l’abulia antisociale e incivile del fermarsi ad osservare il corso degli eventi a regalare alla volontà altrui la forza che altrimenti non avrebbe.

Rabbia e delusione, certo, ma mi auguro, che in quello che ho scritto vi sia anche tanta speranza e se ne senta la presenza: perché oggi abbiamo bisogno di sfogare la nostra rabbia proprio attraverso la speranza, battendoci contro ogni potere che voglia far tornare indietro le lancette della storia dei diritti di ciascuno e di tutti, assegnandoci solamente dei doveri e convincendoci che non ci sono altre possibilità per migliorare se non dichiararsi eticamente contro questa guerra e spingendoci a parteggiare per l’uno piuttosto che per l’altro.

Non possiamo stare se non da un parte: quella dei popoli. Quella nostra, visto che ne facciamo parte. I popoli, come quello ucraino, che sono sacrificati nella lotta di e tra due imperialismi che si configurano sempre meglio fisiognomicamente come il volto di una modernità spaventevole, orrorifica, con addosso tutto il fetore del sangue lasciato fino ad ora sul terreno…

MARCO SFERINI

22 aprile 2022

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli