Le banche falliscono? Nulla di nuovo sotto il cielo grigio del capitalismo

Ma come funziona bene il sistema creditizio! Perdonate l’ironia dell’esclamazione, ma ormai le banche si ritrovano nei pantani del fallimento sempre più. E’ pur drammaticamente vero che vi è...

Ma come funziona bene il sistema creditizio! Perdonate l’ironia dell’esclamazione, ma ormai le banche si ritrovano nei pantani del fallimento sempre più.

E’ pur drammaticamente vero che vi è ancora una enorme sproporzione tra morti a causa dei bassi investimenti in sicurezza sul lavoro e declino del credito privato, ma è impossibile non constatare come la crisi si faccia avanti sempre più veementemente e mostri tutta la debolezza di una rete di affarismi che vengono scoperti e, dunque, frenati dalla Banca d’Italia per evitare un “effetto domino“, per scongiurare interventi impossibili da parte del governo nel salvataggio degli istituti che crollano sotto il peso dei loro stessi debiti o di investimenti poco chiari.

Si crepa, dunque, di lavoro quanto meno crepino le banche per via delle loro sciagurate scelte. Eppure già anni fa, pochi per la verità (parliamo del 2017) i grandi gruppi economici, industriali (dalle telecomunicazioni alla siderurgia, dall’industria aerospaziale a quella globale delle automobili), quelli bancari  e le società di multiservizi facevano registrare un avanzamento del loro fatturato e dell’accumulazione progressiva di profitti rispetto ai cosiddetti “danni della crisi” che aveva attraversato anche l’Europa (e quindi pure l’Italia) nel decennio delle bolle speculative scoppiate in America (dal 2009 in avanti).

Tutto faceva presagire ai sapienti commentatori economico-politici che si fosse davanti ad uno sviluppo di nuovi rapporti di forza e che, pertanto, il mercato si trovasse innanzi ad una spinta propulsiva in quanto ad espansione, a ripresa della domanda, a riconversione di essa in un incentivo di produzione che avrebbe dovuto sviluppare, conseguentemente, l’aumento dei posti di lavoro.

Proprio nel settore bancario, invece, iniziarono a vedersi le prime avvisaglie di una ripresa della crisi: scosse non di assestamento di un riequilibrio dopo il terremoto dovuto al fallimento di grandi finanziarie e di grandissimi investitori d’Oltreoceano, ma vere e proprie guerre interne all’Unione Europea tra differenti gruppi di credito pubblico a loro volta condizionati dall’andamento delle economie nazionali dentro al contesto complesso della sintesi economica continentale.

La Deutsche Bank soltanto due anni fa ha visto ridursi i suoi attivi quasi del 30% e ha tentato una ristrutturazione nella composizione della sua offerta creditizia spostando l’attenzione dagli investimenti in USA a quelli in patria, in Europa e in Cina. Un cambio di rotta che segue le nuove altre nuove rotte: quelle che muovono verso l’espansionismo asiatico che, tutt’ora, appare in grande forma e invade i mercati di mezzo mondo sfruttando anche l’intromissione nelle economie africane.

L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, ormai dato certo e incontrovertibile, riapre scenari di destabilizzazione per tutta una economia che mantiene e dovrà mantenere importanti flussi di scambio con il Regno Unito.

In questo quadro, la crisi delle banche italiane, per ultimo quello della Banca Popolare di Bari, si inserisce molto più modestamente come miserevole affondamento dovuto non a grandi strategie internazionali ma – se vogliamo dirla così rispetto alle cifre dei grandi capitali europei e mondiali – a “piccole” perdite locali, ma dimostra tutta l’instabilità e la tendenza alla crisi ciclica del sistema finanziario dentro al capitalismo moderno (al liberismo).

Il commissariamento dell’istituto pugliese, che rimane uno dei maggiori del sistema bancario italiano, si è reso necessario in seguito al bilancio 2018 chiuso drammaticamente in rosso.

Din qui la richiesta fatta al “Fondo interbancario di tutela dei depositi” dovuta a ingenti perdite patrimoniali (la Banca Popolare di Bari ha un fabbisogno di capitale vicino a 1 miliardo di euro): l’aiuto dovrebbe venire quindi anche dal sistema di tutela proprio degli istituti di credito, ma dovrebbe essere affiancato ad un altro aiuto, di Stato, che andrebbe ad un “partner industriale” (si parla del Mediocredito centrale).

Le cifre sono importanti: circa 900 milioni di euro che il governo deve trovare per salvare la Popolare di Bari e tutelare i risparmiatori che rischiano davvero di vivere un incubo simile a quello del Monte dei Paschi di Siena.

La soluzione, sostiene l’esecutivo, sta nella creazione di una “banca del Sud” che vedrebbe il superamento dell’attuale BPB nel Mediocredito centrale, mediante, si intende, l’aiuto di Stato.

Ma occorre capire da dove derivi questo ammanco di quasi un miliardo di euro. Perché, se da un lato vanno tutelati i risparmiatori, dall’altro vanno accertate le responsabilità di una crisi che – sostengono gli esperti del settore – non avviene a ciel sereno, all’improvviso ma si trascina invece da diversi anni.

Rimane il concetto di fondo: il credito non riesce e non può gestire crisi di capitali che sono frutto certamente di investimenti “sbagliati“, nel senso che non hanno prodotto quegli effetti sperati, magari cercati attraverso soluzioni avventate su cui sarà la magistratura ad indagare per fare luce su una ennesimo tracollo bancario privato cui deve mettere mano il pubblico. Ma il credito non ne è vittima prima. Ne è corresponsabile.

Siamo sempre davanti al problema che lega il credito alle speculazioni, alla concorrenza inevitabile tra assetti di potere economico che svolgono il loro ruolo in una lotta strenue per mantenersi in un pericoloso equilibrio giocato sulla pelle di piccoli risparmiatori su cui, alla fine ricadono le conseguenze delle colpe delle alte dirigenze.

E’ lo stesso viatico per cui passano le crisi aziendali private: finché vi sono profitti non vi è nessuna redistribuzione pubblica, se non mediante il pagamento del lavoro (dello sfruttamento del lavoratore…) mediante il salario; quando si avvicina il rischio di impresa, il crollo o il sentore di una crisi verticale della produzione e quindi il disastro imminente, si fa ricorso alle casse pubbliche per parare le responsabilità private.

Fare credito e fare impresa è, dunque, sfruttare i risparmi altrui per fare cassa e preparasi – in malaugurata evenienza – a salvarsi le terga tramite i risparmi e le sostanze comuni, i beni comuni, i beni di tutti i cittadini. La collettività è dunque al servizio di sempre troppo pochi privilegiati che rivestono il loro ruolo nel sistema capitalistico. Niente di più, niente di meno.

Il debito pubblico come è strutturato, dunque? E’ solo da riversare sulle spalle di ogni singolo cittadino o andrebbe invece calcolato progressivamente, contando anche tutti gli aiuti che lo Stato concede ai privati quando rimangono letteralmente in braghe di tela?

I sostenitori dell’economia di mercato parano il colpo affermando che senza il sistema delle imprese non vi sarebbe ricchezza comune. E’ proprio il contrario. Senza ricchezza comune non vi sarebbe l’impresa: perché la ricchezza comune sono le singole braccia e menti dei lavoratori che, unite, formano l’impresa e consentono al padrone di essere tale.

Non ci si scandalizzi, dunque, se una banca fallisce o arriva sull’orlo del fallimento. Non è una maledizione, non la si imputi al destino, ma alla società capitalistica in cui viviamo e di cui non ci accorgiamo gli effetti e nemmeno le cause…

MARCO SFERINI

17 dicembre 2019

 Foto di Jan Mallander da Pixabay

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