I tre atti della parabola trasformista del M5S

Potremmo andare oltre il concetto novecentesco di “trasformismo” se ci riferiamo alle giravolte dei partiti dell’attuale assetto della politica italiana. Un tempo, infatti, si faceva cenno a singoli cambi...

Potremmo andare oltre il concetto novecentesco di “trasformismo” se ci riferiamo alle giravolte dei partiti dell’attuale assetto della politica italiana. Un tempo, infatti, si faceva cenno a singoli cambi di scranno parlamentare: tanto quando governava l’ex repubblicano e garibaldino Crispi sia quando, in tempi molto più recenti, che hanno messo al bando la tradizionale imperturbabilità della missione del parlamentare nel proprio gruppo d’elezione, le transumanze sono diventate di massa quando anche di partito.

Ma il vecchio “trasformismo” del Regno d’Italia prima e della Repubblica Italiana, almeno fino agli anni ’90 del secolo scorso, ha lasciato il posto a quella che, eufemisticamente, potremmo definire una “interpretazione” molto blanda del vincolo di mandato, piegando questo principio non più tanto a crisi di coscienza singole di deputati o senatori ma a calcoli ben precisi che hanno riguardato formazioni politiche.

L’originaria imperturbabilità del Movimento 5 Stelle, nato sulla scia di quella distinzione da tutto e da tutti, caratteristica politica e organizzativa che ha sempre fatto dei comunisti una eccezione nell’agone politico completamente asservito al “pensiero unico” e dominante (tocca precisare e non parlare di “sinistra” visto che, ad esempio, i socialisti non erano così desiderosi di distinguersi dal resto delle forze a guardia degli interessi dei grandi padroni e del capitale in generale), è venuta progressivamente meno, sempre più mutata dal corso degli eventi.

La mutazione è figlia dell’accrescimento dei consensi, dell’aspirazione al ruolo di governo: dapprima sempre e soltanto un richiamo al “monocolore” pentastellato. Poi, chiaramente adottando la formula dell'”interesse nazionale“, passata la stagione di rifiuti in diretta Internet a Bersani e a Renzi, il secondo passaggio è la mitigazione della rigidità, dell’intransigenza puristica conclamata nel distacco anche fisico dal resto del mondo politico, alla ricerca di una rivoluzione molto formale, tutta racchiusa nel progetto di estensione del principio civico di una “onestà” molto poco intellettuale e molto economica.

La prima parte dell’avventura dei Cinquestelle è tutta racchiusa qui: la costruzione di una chiara fisionomia di alterità rispetto a ciò che vi era in precedenza sul mercato della politica italiana. La seconda parte del dramma è più complessa: il prologo lascia il posto ad un’evoluzione che attiva una dialettica interna che diviene ingestibile nelle forme, nei tempi e nei modi previsti dai loro regolamenti.

La morale isolazionista, quella che avrebbe voluto il M5S al governo dell’Italia da solo, deve essere accantonata: impossibile persino per le forze totalitarie del Novecento arrivare al governo da sole al primo tentativo… Figuriamoci per un movimento che pretende, senza una precisa ideologia, una visione critica dell’esistente volta a cambiarlo in parte o in tutto, di diventare il perno unico attorno al quale ruoti una armonia economica (sociale e politica) che metta insieme gli interessi padronali con quelli del mondo del lavoro.

Non siamo più al tempo delle intuizioni corporativistiche del fascista Bottai, del suo sforzo culturale per creare nel movimento mussoliniano una crescita in tal senso e smarcarlo da quella idolatria del capo di cui, peraltro, lo stesso gerarca sarà preso fino al luglio del 1943, quando con Grandi e Ciano partecipò alla pianificazione del rovesciamento del regime stesso.

Il corporativismo non può essere un modello del nuovo secolo o del nuovo millennio: del resto, alla “pace sociale” ci pensano comunque Confindustria e i sindacati gialli che non perdono tempo per accettare le politiche liberiste di governi di centrosinistra che, così facendo, aprono la via al M5S per classificarsi come grimaldello rivoluzionario in una asfittica e monotona fase politica di stagnazione delle idee, dove tutto è legato ai parametri europei, ai trattati internazionali e dove il Parlamento è mero ratificatore degli ordini che provengono dalla BCE e dai suoi simili intercontinentali.

Il secondo atto della tragedia pentastellata, dunque, è l’arrivo – in questo contesto – a palazzo Chigi: non lo si può fare col PD di Renzi, e quindi, per “senso di responsabilità” il governo lo si fa con la Lega di Salvini: il “Contratto” sembra essere una specie di “Legge delle XII tavole“, una reciproca garanzia di stabilità che al contempo rompe due tabù storici.

Il primo riguarda per l’appunto i pentastellati: mai al governo con altre forze politiche se non da soli. Non vale più. Il secondo riguarda l’involuzione nazionalista della Lega. Anche in questo caso è riduttivo parlare di “trasformismo“: siamo davanti ad una vera propria “mutazione genetica” delle ragioni per cui nacque la Lega Lombarda prima e la Lega Nord poi. Il separatismo delle regioni settentrionali viene accantonato e la svolta di Salvini abbraccia ormai l’intero Paese, l’italianità, il primato nazionale e qualunque cosa possa ridare fiato all’ammodernamento delle stigmatizzazioni delle differenze esaltate come elemento di contraddizione sociale invece che di sviluppo e di compenetrazione di culture, esperienze, oltre alle ragioni di sostegno economico che i migranti portano con sé nel momento in cui divengono parte attiva del processo produttivo del Paese.

L’incontro del 1° giugno 2018 sancisce la nascita del primo governo a guida Conte: il governo dalla duplice “mutazione genetica” di due forze politiche differenti ma non poi così molto. Si tratta di due fenomeni di destra: moderata e populista l’una, estremista e sovranista la seconda.

Più comprensibile, certo, risulta il cambiamento dei Cinquestelle: dall'”irrealpolitik” della torre d’avorio della purezza candida e incontaminata dai maneggi della politica degli ultimi decenni alla “realpolitik” che guarda – a differenza dell’originale germanico – a determinati valori cui intende non transigere.

Poi la storia fa il suo corso, il governo pure, la mano forte del ministro degli Interni si fa sentire, il suo protagonismo esaspera tanto gli altri dicasteri quanto gran parte degli italiani. Ma il M5S, pur facendosi sentire come forza allora predominante in Parlamento e nei sondaggi, subisce un ridimensionamento nelle tornate elettorali europee ed amministrative. Camera e Senato sembrano non riflettere più la reale volontà popolare che capovolge i rapporti di forza delle due alte Assemblee della Repubblica e regala una – momentanea – illusione a Salvini. Arrivare alla Presidenza del Consiglio.

La rottura della Lega con l’alleato è anch’essa storia ed innesca il terzo atto della tragedia di cui sono narrati i quadri teatrali: in questa fase i Cinquestelle devono decidere se tornare ad essere forza primigenia, esclusivista e altra rispetto a tutti gli altri schieramenti, e rigettarsi nell'”irrealpolitik” che rischia questa volta di non pagare nemmeno più elettoralmente o, altrimenti, se proseguire sulla via della “realpolitik” e seguire l’iter costituzionale, cercare una nuova maggioranza di governo.

Il terzo atto della tragedia (o commedia… scegliete voi come meglio chiamare tutte queste giravolte) è l’impensabile per antonomasia. Nemmeno gli scommettitori più abili avrebbero immaginato di puntare un solo centesimo sulla possibile alleanza di governo tra M5S e PD: un Partito democratico zingarettiano ma pur sempre con i renziani e Renzi al suo interno.

Il nemico dei nemici (e giustamente): colui contro il quale è stata combattuta la trasversale ottima battaglia per evitare lo stravolgimento della Costituzione nel 2016.

Curioso rileggere i giornali di solo un anno fa… Si trovano queste cronache (da L’Inkiesta” del 19 luglio 2019)

Si dirà che tre indizi non fanno una prova e che tra Pd e Cinquestelle continuano a volare stracci e ceffoni. Vero. Ieri, per dire, sul blog dei Cinquestelle compariva una sobria nota dove, per smentire i soliti retroscenisti che ipotizzano alleanze future tra movimento e dem, si ribadiva: “Non faremo mai nessuna alleanza con il Partito di Bibbiano!”. E da parte sua il segretario dem Zingaretti conferma: “Non c’è nessun governo Partito Democratico – Movimento 5 Stelle all’orizzonte, non è questo l’obiettivo. Noi abbiamo le nostre idee, se gli altri convergono ci fa piacere”.“.

L’8 agosto Salvini e la Lega lasciano il Conte I e meno di un mese dopo si forma il Conte II con PD e Cinquestelle insieme a Liberi e Uguali e col sostegno dei gruppi delle Minoranze linguistiche, Alternativa Popolare e +Europa della Bonino e Italiani all’estero (MAIE).

Dopo tutta questa cronistoria degli eventi, sono ancora ben presenti nelle trasmissioni di attualità e politica confronti tra pentastellati e leghisti che si rinfacciano vicendevolmente le colpe della rottura della maggioranza del governo Conte I nonché la nascita del successivo esecutivo sorto dalle ceneri di una crisi voluta in piena estate e finita quando per il poeta “…è tempo di migrare“.

Primo, secondo e terzo atto di questa tragedia portano alla considerazione di un enorme mutamento strutturale del Movimento 5 Stelle che oggi appare ancora in maggiore evidenza dopo la crisi della leadership di Luigi Di Maio. Oggi possiamo dire che, mentre si inizia a parlare di “congresso” (termine un tempo letteralmente avulso nel linguaggio tecnico-politico del movimento creato da Casaleggio e Grillo), dopo tante piccole scissioni personali di deputati e senatori che hanno abbandonato tanto da sinistra quando da destra il M5S, si è aperta una stagione di normalizzazione di una forza politica che non è mai stata rivoluzionaria se non concependosi sempre, e comunque, all’interno del contesto dell’economia di mercato e parametrando tutte le sue intenzioni sulla base dei “valori” del mercato.

Siamo, pertanto, oltre il concetto di “trasformismo“. La interessante storia di questa seconda anomalia tutta italiana (dopo quella del PD, infelice simbiosi tra due culture politiche e sociali profondamente differenti: socialdemocrazia e cattolicesimo democratico) approda ad una riconversione valoriale, dei princìpi fondanti e fondatori di un movimento che è così tanto cambiato da somigliare all’amico che non vedi da anni, che incontri per caso un giorno e che è costretto a dirti il suo nome per farsi riconoscere da te…

Riprendo, come chiusura di questi pensieri, ciò che scrivevo un anno fa a proposito della nascita del Conte II e dei suoi primi mesi di sperimentazione: “…ma il Movimento 5 Stelle è ormai superato, come avrebbe sostenuto Hegel, da quello “sviluppo delle cose” che, rispetto al fragore che fanno da un lato Salvini e la Lega e dall’altro le sardine, è “in apparenza pacifico ed è inavvertito”.

La dialettica hegeliana ha colpito ancora. Ma non date la colpa al grande filosofo tedesco…

MARCO SFERINI

1° luglio 2020

foto: elaborazione da screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli