Per una nuova Resistenza contro le disuguaglianze

Tra meno di una settimana ricorrerà il 75esimo anniversario della Liberazione dell’Italia dalla dittatura nazifascista. Un 25 aprile senza manifestazioni ufficiali, senza cortei e senza feste che precedono altre...

Tra meno di una settimana ricorrerà il 75esimo anniversario della Liberazione dell’Italia dalla dittatura nazifascista. Un 25 aprile senza manifestazioni ufficiali, senza cortei e senza feste che precedono altre ricorrenze importanti come il Primo Maggio. Un 25 aprile in cui l’ANPI ci invita a mostrarci dai balconi di casa e a cantare “Bella ciao“, esponendo una bandiera tricolore, magari anche una bandiera rossa, fosse non altro che per ricordare tutti i resistenti che condivisero nella lotta per la Resistenza anche quella per una società più giusta ed eguale.

Settantacinque anni dopo, non solo viviamo un momento di incertezza dovuto alla pandemia da Coronavirus, ma assistiamo ad una trasformazione della democrazia che deve in qualche modo adattarsi alla situazione di emergenza e che, per questo, subisce uno squilibrio tra i poteri dello Stato con un Parlamento impossibilitato a riunirsi secondo le normali procedure e nella sua pienezza di rappresentanza e un Governo che, al contrario, rimane il principale attore della gestione emergenziale.

Le decretazioni di urgenza sono divenute in questi mesi non l’unico, ma certamente il prevalente metodo di legislazione, di impartizione delle norme a tutela della salute pubblica da applicarsi su tutto il territorio della Repubblica. Ma la debolezza della cosiddetta “catena di comando“, che da Roma dovrebbe scendere verso tutte le amministrazioni locali, si è resa evidente in tutta la sua fragilità nel momento in cui i poteri delle singole Regioni si sono concretizzati in specifiche ordinanze differenziate persino da Comune a Comune.

E’ riapparso come uno spettro dal passato quel groviglio di localismi che, fin dal tempo delle Signorie, ha guardato all’interesse localistico come prevalente rispetto all’unità geografico-linguistica della Penisola di allora: tante norme e nessuna norma. Tante istituzioni e nessuna vera voce unica che si facesse ascoltare dalla Vetta d’Italia fino a Pantelleria.

Per la verità, va detto che la situazione contingente, quindi lo sviluppo del Covid-19 prevalentemente nelle regioni Nord-Occidentali, in parte nel Veneto e nell’Emilia Romagna, ha di fatto generato divisioni quasi aprioristiche, difficilmente gestibili se non consentendo ai Presidenti di Regione di valutare caso per caso l’evolversi di una pandemia che, nei dati scientificamente analizzati dall’Istituto Superiore di Sanità ogni quindi giorni, sembra al momento risparmiare l’Italia al di sotto del Rubicone.

Quella Repubblica nata dalla lotta resistenziale per uscire da una guerra fratricida, da una guerra mondiale, dall’olocausto di interi popoli, dalle macerie morali e materiali di un Paese diviso tra revanchismo fascista al nord e ripresa della monarchia liberale al centro-sud, non è immune da tanti patogeni antidemocratici che avanzano pericolosamente.

Si tratta di virus riconoscibili nei tentativi fatti nel recente passato di stravolgere la Costituzione, ponendo al centro della vista istituzionale il potere esecutivo e facendo del Parlamento una dipendenza di questo.

Si tratta di non dimenticare la recente controriforma varata dal governo e sospesa per l’impossibilità di tenere la consultazione referendaria nel mese di marzo, che prevede il taglio drastico dei parlamentari con la scusa della riduzione dei famigerati “costi della politica“.

E per ultimo, il vero e proprio virus, di nome e di fatto, il Covid-19 che, se da un lato ha messo in profonda crisi l’impianto liberista delle politiche governative, delle privatizzazioni e di un regionalismo spinto che ridimensiona l’ambito di azione del Governo a discapito della dimensione pubblica di istituzioni che hanno gestito settori come quello sanitario badando all’incremento di un prodotto interno lordo fondato sulle dinamiche ballerine del mercato e non sulle esigenze concrete della popolazione. Prima il PIL e poi gli italiani. Prima le imprese e i padroni e poi i cittadini e i lavoratori tutti.

La grande visione democratica e repubblicana, venuta alla luce con la fine del regime fascista, costruita dalla Carta costituzionale e tante volte oggetto di attacco di forze che hanno provato a reagire (quindi “reazionarie” nel più proprio senso della terminologia politica di questo aggettivo) all’espansione dei diritti sociali e civili, dell’uguaglianza rispetto al privilegio di classe, si è fermata negli anni ’80, regredendo nella Repubblica oligarchica di poteri politici sempre più condizionati da una fase espansiva del capitalismo che pretendeva di garantire benessere alle regioni produttive del nord, guardando al sud come terra di nuova conquista, dove esternalizzare la produzione e sfruttare la forza-lavoro con la contropartita di salari da fame.

Tutte le diseguaglianze che viviamo ancora oggi e che sono figlie del liberismo più sfrenato, hanno riaperto ferite antiche e le hanno rese ancor di più solchi incolmabili tra una Italia proiettata verso la Mitteleuropa moderna e sviluppata che guarda a Francoforte e un Mezzogiorno con tassi di disoccupazione inversamente proporzionali all’agiatezza di quelle zone dove il Coronavirus ha colpito al cuore l’economia dell’intero Paese.

Se ne può trarre come lezione che il depotenziamento delle strutture sociali, prima fra tutte la sanità pubblica, ha reso un cattivo servizio all’intera Italia, facendo ancora una volta pagare ai più deboli della società le scelte scriteriate di una classe dirigente padronale che ha assunto come servitori quei sovranisti capaci soltanto di dire di sì agli imprenditori nel nome ipocrita del “benessere del Paese e delle comunità locali“.

L’Italia repubblicana e democratica, dopo 75 anni dalla Liberazione, è un nuovo cumulo di macerie: morali, culturali, sociali e veramente materiali. Macerie scolastiche, macerie sanitarie, macerie frutto di egoismi che hanno ricreato le condizioni per una arlecchinatura del Paese, che si sente comunità nazionale soltanto se inneggia alle forze armate o alla sacralità patriottarda della bandiera, pensando così di esaltare una italianità che invece viene calpestata ogni volta che si mettono in essere politiche che tutelano i privilegi dei privati a tutto danno del benessere comune.

Tanta retorica sull'”essere italiani” non fa dismettere allo Stato i panni di servitore di due padroni. Non si possono conciliare gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici – che sono il vero motore economico e sociale della Nazione – con gli interessi di Confindustria e dei padroni in generale.

Tornare ai princìpi fondamentali dell’eguaglianza (pur social-liberale) della Costituzione sarà il primo atto da perseguire quando l’emergenza sanitaria sarà dichiarata, se non proprio terminata, almeno sotto controllo. Nessun proseguimento della decretazione d’urgenza dovrà avere legittimazione e nessun “potere speciale” potrà essere invocato per arginare il tracollo economico di una classe industriale che non ha investito praticamente nulla dei suoi profitti in sicurezza sul lavoro e in potenziamento delle strutture sociali che sono necessarie per il mantenimento di una vita decorosa di quei cittadini che sono anche lavoratori, che sono quindi sfruttati dai proprietari dei mezzi di produzione.

Cantare “Bella ciao” è certamente unificante, soprattutto se si ha consapevolezza del valore storico, politico e sociale di quelle frasi e di quelle note, se si conosce il contesto in cui nacquero e si diffusero. Ma non è sufficiente a ridare alla Repubblica italiana la centralità del suo essere “cosa pubblica“, contro ogni regionalismo separatista, contro ogni prevalenza del privato sul pubblico, contro ogni discriminazione antisociale. Per aprire una fase nuova nella vita del Paese servono condizioni di vita nuove, diritti nuovi, e lavori nuovi.

Nessun imprenditore sarà mai disposto a concedere tanto: e comunque si tratterebbe sempre e soltanto di una mera concessione, non di una acquisizione di diritti fondamentali in una società che deve affrontare sfide epocali come quella del Covid-19 che impatta duramente sulla sanità e sulla salute pubblica.

Bisogna “vederle” queste problematiche, così come in psicoanalisi si “vedono” le proprie nevrosi, le proprie ansie e fobie e riconoscendole si fa il primo passo per depotenziarle e renderle innocue, incapaci così di canalizzare le nostre paure e ingigantirle creando mostri fatti della carta pesta del pensiero, privi di qualunque attinenza con la realtà.

Bisogna accorgersi del modo in cui si vive, proprio per iniziare a non accettare più questa dittatura dei mercati, così come oltre 75 anni fa decine di migliaia di italiani decisero di accorgersi della “parte giusta” in cui stare e in cui combattere. Fu una scelta difficile. A molti costò la vita. A tanti cambiò quella vita e permise il riscatto morale proprio e dell’intero Paese.

Una nuova Resistenza è possibile. Soltanto, dobbiamo darle un obiettivo chiaro e netto, ininterpretabile. Senza se e senza ma.

MARCO SFERINI

19 aprile 2020

foto: screenshot

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