Non ci resta che piangere. Il puro piacere del divertimento

Benigni e Troisi a spasso nel tempo

Ridere fa bene alla salute. Per anni a dirlo, prima ancora di autorevoli studi scientifici, era bastato l’antico proverbio “Il riso fa buon sangue”. Ma ridere ha sempre fatto bene anche al botteghino. Da Fantozzi ad Amici miei, dai cosiddetti “cinepanettoni” a Checco Zalone, i film comici hanno sempre ottenuto un grande successo nel nostro Paese. In particolare negli anni ’80 quel genere fu praticamente l’unico a contendere spettatori alle pellicole statunitensi.

1. Fantozzi (1975)

Sul finire degli anni Settanta, infatti, si era affacciata sul grande schermo una nuova generazione di comici che i produttori non tardarono a sfruttare realizzando centinaia di film ad episodi e andando a formare nuove coppie, alcune estemporanee, altre divenute storiche: da Carlo Verdone ed Enrico Montesano ad Adriano Celentano e Renato Pozzetto fino ad arrivare a quella composta da Christian De Sica e Massimo Boldi che, formatasi in Yuppies di Carlo Vanzina, continua ancora ai giorni nostri.

Ma ci fu anche una coppia atipica, geograficamente e culturalmente, non nata per mere esigenze di mercato, ma con la sola idea di divertirsi e divertire. Una unione artistica che non ebbe né sviluppi né continuità. Insomma più che una coppia, l’incontro tra due autori e due personalità molto diverse, definite e autonome. I due artisti in questione realizzarono insieme un unico grande film, campione d’incassi nella stagione 1984-85 (perché allora si seguiva lo stesso calendario usato per la scuola o per i campionati sportivi). I due comici si chiamavano Roberto Benigni e Massimo Troisi e il film si intitolava, ovviamente, Non ci resta che piangere.

I due attori avevano iniziato entrambi col cabaret, ma erano arrivati al cinema in maniera differente e con diversi risultati.

2. Berlinguer ti voglio bene (1977)

Benigni aveva debuttato diretto dall’amico Giuseppe Bertolucci in Berlinguer ti voglio bene, per poi recitare in: I giorni cantati (1979) del cantautore Paolo Pietrangeli, autore della celebre “Contessa”; La luna (1979) di Bernardo Bertolucci, Clair de femme (Chiaro di donna, 1979) di Costa-Gavras, Chiedo asilo (1979) di Marco Ferreri, film pluripremiato a Berlino, Il Pap’occhio (1980) di Renzo Arbore (1980), Il minestrone (1981) di Sergio Citti. Successivamente l’attore toscano decise di passare alla regia. Pensò inizialmente ad un cortometraggio, ma alla fine realizzò un film di quattro episodi attraversati da una vena laica e da una irriverente religiosità: Tu mi turbi (1983), squilibrato, ma ricco di motivi autenticamente comici. Nel primo episodio, interpretato con l’amico di sempre Carlo Monni, recitò anche un’attrice che da allora divenne non solo l’eterno volto dell’idealizzazione femminile dell’attore, ma l’amore della vita. Il suo nome era ed è Nicoletta Braschi.

3 Ricomincio da tre (1981)

Troisi, invece, dopo il successo de La Smorfia in teatro, era approdato, sempre insieme a Lello Arena e Enzo Decaro, alla televisione. Ma nel 1980, nonostante lo straordinario successo, basti pensare allo sketch sulla “Natività” e alla celebre esclamazione “Annunciazione! Annunciazione!”, il gruppo si sciolse. L’attore napoletano decise così di passare alla settima arte. Debuttò scrivendo, dirigendo e interpretando Ricomincio da tre. Il cinema italiano non stava attraversando un gran periodo, ma quel film, geniale già dal titolo, divertente e lontano dagli standard della “commedia all’italiana”, divenne campione di incassi, rimase 43 settimane consecutive nei cinema italiani, record imbattuto e difficilmente battibile, e valse a Troisi numerosi riconoscimenti tra i quali due David di Donatello e quattro Nastri d’argento. Seguì, dopo No grazie, il caffè mi rende nervoso (1982) diretto da Lodovico Gasparini, un altro film con forti passaggi autobiografici, Scusate il ritardo (1983), il cui titolo è anche un riferimento al tempo passato, peraltro breve, da Ricomincio da tre. Sempre al suo fianco l’amico Lello Arena.

4. Troisi e Benigni in una puntata di Blitz, trasmissione condotta da Gianni Minà

Benigni e Troisi si conobbero a Roma e iniziarono a frequentarsi sempre più assiduamente. Più volte ospiti della trasmissione Blitz condotta da Gianni Minà (uno spettacolo che sarebbe in anticipo sui tempi oggi, figurarsi nei primi anni Ottanta) l’inedita coppia riuscì a colpire anche il pubblico del piccolo schermo (Benigni lo aveva a suo modo lasciato anche nell’edizione del Festival di Sanremo del 1980). Nel 1982 per un altro programma televisivo, Che fai… ridi? dedicata ai comici emergenti, Troisi realizzò il mediometraggio Morto Troisi, viva Troisi! un finto reportage sulla morte dell’attore e regista napoletano, con Lello Arena nei panni dell’angelo custode e Roberto Benigni in quelli di Gennarino, sedicente amico di infanzia di Troisi che poi si svela essere lo stesso attore toscano invidioso del successo dell’amico. Nel film anche Carlo Verdone, Maurizio Nichetti, Renzo Arbore, Marco Messeri e tanti altri nei panni di loro stessi.

Ma l’amicizia tra Benigni e Troisi ben presto si trasformò in passione artistica. I due sentivano l’esigenza di mettersi in discussione, di trovare nuove forme espressive. Decisero così di fare un film insieme. Non avevano un’idea precisa, se non quella di divertirsi e crescere, dirigendo e recitando insieme.

5. Tu mi turbi, film prodotto da Ettore Rosboch

Ma i film costano e quindi vennero coinvolti i produttori che avevano finanziato le loro prime opere. Tu mi turbi di Benigni era stato prodotto da Ettore Rosboch von Wolkenstein (1945). La madre era Elisabeth “Lili” Jaworski von Wolkenstein (1915 – 1959), una nobile discendente del poeta Oswald von Wolkenstein, componente dell’Ordine del dragone nelle cui fila militava anche Vlad II Dracul, padre di quel Vlad Țepeș III di Valacchia, che aveva il “vizio” di impalare i nemici e che diventerà immortale grazie alla penna gotica di Bram Stoker col nome di Dracula.

6. Ettore Bernardo Rosboch

Sul padre la discussione, senza voler scivolare nel gossip, è più complessa. All’anagrafe risulta il quasi omonimo Ettore Bernardo Rosboch (Torino, 19 aprile 1893 – Roma, 28 agosto 1944), principale collaboratore del ministro delle Finanze Alberto De Stefani nei primi anni Venti, cacciato da Mussolini, e poi produttore cinematografico di modesti film, tra questi Mille lire al mese (1939) e Ballo al castello (1939) diretti da Max Neufeld, che ebbero comunque il merito di lanciare Alida Valli. Pellicole non certo impegnate, ma non gradite al regime fascista, per nulla contento delle origini ebraiche di Neufeld, da Rosboch ingaggiato “in barba alla politica razzista del regime”. Ettore Bernardo Rosboch era il marito di “Lilli” Jaworski, ma la donna aveva anche un amante e i sospetti, per molti certezze, fanno pensare che il padre del piccolo Ettore Rosboch fosse proprio l’amante. L’uomo in questione era un nobile e antifascista napoletano e rispondeva al nome di Filippo Caracciolo, padre di due figli maschi Carlo e Nicola e di una femmina, Marella Caracciolo di Castagneto, futura moglie dell’Avvocato. Quale avvocato? Quell’Avvocato: Gianni Agnelli.

7. Elisabetta Maria Rosboch von Wolkenstein e Ettore Rosboch

Indipendentemente dalla paternità Ettore Rosboch von Wolkenstein sul finire degli anni Sessanta aveva prodotto l’unico disco de Le Stelle di Mario Schifano, tra i primi esempi di musica underground italiana, mentre per il cinema, prima di Benigni, aveva prodotto tra gli altri: Il grande duello (1972) film western diretto da Giancarlo Santi (poi collaboratore di Marco Ferreri e Glauber Rocha); Piedino il questurino (1974) modesta parodia di Piedone lo sbirro interpretata da Franco Franchi, opera prima di Franco Lo Cascio, poi prolifico regista porno col nome di Luca Damiano; Il poliziotto è marcio (1974) di Fernando Di Leo con Luc Merenda. Uno dei suoi ultimi film fu Tuttobenigni (1986) di Giuseppe Bertolucci. Ettore Rosboch von Wolkenstein, infatti, da buon nobile si sposò con una altrettanto nobile, Anna Maria “Lilia” de Smecchia. Dalla loro unione il 9 settembre del 1987 nacque Elisabetta Maria Rosboch von Wolkenstein. La giovane donna il 5 luglio 2014 venne accompagnata dal padre, ormai ex produttore, all’altare della Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma. Il marito era ed è ovviamente un nobile. Addirittura un principe, il Principe Amedeo del Belgio, Arciduca d’Austria-Este. Da allora la figlia del produttore cinematografico degli esordi di Benigni è nota ai più come la principessa Elisabetta del Belgio.

Di tutt’altro orientamento Mauro Berardi (Roma, 7 maggio 1943) il produttore di Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, i primi film di Massimo Troisi. Le cronache mondane lo ricordano per essere stato a lungo compagno della conduttrice Barbara D’Urso, dalla quale ebbe due figli, ma in quegli anni Bernardi aveva un ruolo importante nella scena indipendente e nel cinema militante (Il caso Moro), al punto da produrre, nei decenni successivi, numerosi documentari corali, politicamente schierati a sinistra: Genova. Per noi (2001), Porto Alegre (2002), Carlo Giuliani, ragazzo (2002), Firenze, il nostro domani (2003), Lettere dalla Palestina (2003), diretti, tra gli altri, da Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Francesco Maselli, Francesca Comencini.

8. Mauro Berardi con Roberto Benigni e Massimo Troisi

Per scrivere la sceneggiatura, tra il 1983 e il 1984, Roberto Begnigni e Massimo Troisi chiesero a Ettore Rosboch e Mauro Berardi di potersi ritirare, a spese della produzione, a Cortina d’Ampezzo. Le idee, tuttavia, scarseggiavano. Decisero così di trovare ispirazione in una località di mare. Ancora niente. Quindi si stabilirono per un certo periodo in Val d’Orcia. Poco, se non l’idea di raccontare la storia di due amici innamoratisi della stessa donna; cosa che li avrebbe portati ad un violento litigio. Troppo banale. Infine i due si trasferirono presso il Castello di Sorci, vicino ad Arezzo. Più che “ritiri lavorativi” quelle dei due attori erano delle vere e proprie vacanze, fatte di divertimento e giochi. Il più ricorrente, che scattava quando gli argomenti seri delle loro chiacchierate notturne si erano esauriti, era l’imitazione di personaggi del passato: il toscano iniziò ad imitare Marx, il napoletano Freud. Un gioco continuo che li portò a maturare l’idea di fare un film in costume. Dopo diverse settimane Begnigni e Troisi tornarono così dai produttori con pochi appunti che, più o meno, recitavano “ci perdiamo nel Medioevo, andiamo a fermare Cristoforo Colombo”. Fulminante, folle, geniale.

Per la stesura definitiva venne, ovviamente, coinvolto Giuseppe Bertolucci che tentò in tutti i modi di dissuadere i due amici dal fare un film nel passato. Il regista avrebbe preferito una pellicola incentrata sulle chiacchiere dei due al tavolo di un bar, una sperimentazione, ma alla fine si adeguò a quella folle e buffa idea. Alla stesura definitiva più di un contributo lo diede anche, benché non accreditato, Alberto Farassino (Caluso, 1 agosto 1944 – Milano, 31 marzo 2003), collaboratore de La Repubblica, nonché amico di Benigni.

9. Francesco Petrarca, al poeta si deve, il titolo del film

Il titolo della sceneggiatura era inizialmente Provvisorio, ma quell’idea a Troisi non piacque. Poi il titolo divenne Definitivo, ma ancora una volta il comico napoletano storse il naso. Fu così che Benigni disse all’amico: “facciamo così ti leggo una poesia, dimmi quale ti piace di più per il titolo”. L’attore toscano si soffermò su un’opera di un aretino come lui, Francesco Petrarca. Il poeta nell'”Epistola ad Barbatum sulmonensem”, una lettera a Barbato da Sulmona inserita nella raccolta “Epistolae metricae”, scriveva: “Non omnia terre / obruta: vivit amor, vivit dolor; ora negatur / regia conspicere, at flere et meminisse relictum es” che tradotto suona “Non tutto in terra è stato sepolto: vive l’amor, vive il dolore; ci è negato veder il volto regale, perciò non ci resta che piangere e ricordare”. Troisi lo fermò. Ecco: Non ci resta che piangere.

I due registi, sceneggiatori, nonché protagonisti del film cercarono personalmente anche i luoghi, prevalentemente tra Toscana e Lazio, e gli interpreti di questo viaggio nel tempo, che anticipò di un anno Back to the Future (Ritorno al futuro). Venne ingaggiata una ragazza di neanche vent’anni che si chiamava Amanda Paoli (Losanna, 31 ottobre 1964), ma che come nome d’arte, anziché tenere il cognome del padre Gino, aveva scelto di chiamarsi come la madre, un’attrice in quegli anni all’apice del successo, Stefania Sandrelli.

10. Amanda Sandrelli

Nel cast anche l’italodominicana Iris Peynado (Santo Domingo, 10 giugno 1958), che aveva debuttato in Attila flagello di Dio (1980); Livia Venturini (Roma, 31 marzo 1926) già suora ne La strada (1954) di Federico Fellini; Elisabetta Pozzi (Genova, 23 febbraio 1955) attrice prevalentemente teatrale formatasi allo Stabile di Genova; Paolo Bonacelli (Civita Castellana, 28 febbraio 1937) attore prolifico e impegnato che aveva già lavorato con Ettore Scola, Giuliano Montaldo, Roberto Rossellini, Pier Paolo Pasolini e Francesco Rosi; Stefano Gragnani (Firenze, 20 marzo 1946) caratterista spesso al fianco dei nuovi comici italiani, ma ricordato per i tanti spot della Bistefani. In questa folle avventura non poté esserci l’amico di Troisi Lello Arena, impegnato con Carlo Verdone nel film Cuori nella tormenta (1984), ma ci fu quello di Benigni, l’immancabile Carlo Monni, al suo fianco in tutti i suoi film a partire da Berlinguer ti voglio bene.

11. Nino Baragli, curò il delicato montaggio

Di primo livello il cast tecnico. La fotografia fu curata da Giuseppe Rotunno (Roma, 19 marzo 1923), professionista di fama internazionale aveva lavorato con Luchino Visconti (Le notti bianche, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo), Federico Fellini (tra gli altri Fellini Satyricon, Amarcord, Il Casanova di Federico Fellini), Stanley Kramer (L’ultima spiaggia, Il segreto di Santa Vittoria) e Bob Fosse (All That Jazz, per il quale venne nominato all’Oscar). Gli effetti speciali furono di Giovanni Corridori (Roma, 13 febbraio 1939) più volte al fianco di Sergio Leone e Dario Argento, nonché curatore degli “effetti” di tre film italiani da Oscar: Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore, Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores e La vita è bella (1997) ovviamente diretto da Roberto Benigni. La scenografia fu, invece, affidata a Francesco Frigeri (Cerlongo, 17 maggio 1954) tra i più importanti del settore dagli anni Ottanta. I costumi furono realizzati da Ezio Altieri, scenografo e costumista del celeberrimo Malizia (1973), ma attivo anche in film di Ettore Scola e Dino Risi. Il montaggio, infine, venne curato da Nino Baragli (Roma, 1 ottobre 1926 – Roma, 29 maggio 2013), storico collaboratore di Sergio Leone dalla “Trilogia del dollaro” a C’era una volta il West. Un’ultima menzione per le musiche composte da Giuseppe “Pino” Donaggio (Burano, 24 novembre 1941) straordinario autore e interprete della intramontabile “Io che non vivo (senza te)” e in seguito curatore di numerose colonne sonore, tra le altre, da Carrie (Carrie, lo sguardo di Satana) a Dressed to Kill (Vestito per uccidere) di Brian De Palma a Due occhi diabolici e Trauma di Dario Argento.

12. Pino Donaggio, autore delle musiche

Non ci resta che piangere non aveva un vero e proprio copione, ma un semplice canovaccio. Il resto era lasciato all’improvvisazione e all’estro dei due protagonisti. Anche per questo le riprese, iniziate il 25 luglio del 1984 pochi giorni dopo la maturità di Amanda Sandrelli, portarono ad una quantità eccessiva di materiale girato, cosa che costrinse il montatore Baragli ad un lavoro straordinario, al conseguente taglio di diverse scene, tra queste quelle in cui Marco Messeri interpretava Savonarola, e addirittura a due finali differenti. Così la lavorazione del film inizialmente prevista in otto settimane, durò una settimana in più. Non ci resta che piangere uscì nelle sale poco prima di Natale, era il 21 dicembre 1984.

13. Non ci resta che piangere

Saverio (Roberto Benigni), maestro elementare e Mario (Massimo Troisi), bidello nella stessa scuola, attraversano la campagna in automobile parlando di Gabriellina, sorella del primo, lasciata dal fidanzato americano e per questo entrata in una forte crisi depressiva. Fermati da un passaggio a livello, i due decidono di prendere un’altra strada, ma si perdono e rimangono senza benzina. Durante la notte scoppia anche un temporale che li costringe a chiedere ospitalità in “strana” una locanda gestita da una donna (Elisabetta Pozzi). Al risveglio si accorgono di essere misteriosamente finiti nel quindicesimo secolo, per la precisione nel 1492, nell’immaginario paese di Frittole. Mario non è in grado di accettare la nuova condizione, mentre Saverio se ne convince subito e, indossati i panni dell’epoca, vi si adatta con disinvoltura. Trovata l’ospitalità del macellaio Vitellozzo (Carlo Monni) e della madre Parisina (Livia Venturini), la coppia di amici decide di sfruttare i suoi cinque secoli di vantaggio, scrivendo una lettera d’ammonimento al Savonarola e tentando di affascinare le ragazze dell’epoca. Il timido Mario conquista il cuore di Pia (Amanda Sandrelli), la più ricca del paese, fingendosi menestrello autore di “Yesterday”, “Nel blu dipinto di blu”, “Bianco Natale” e “Fratelli d’Italia”. Mentre Saverio ha un chiodo fisso: fermare Cristoforo Colombo prima che scopra l’America, impedendo così la nascita del futuro fidanzato della sorella. Il tentativo fallisce, anche per gli interventi dell’amazzone spagnola Astriaha (Iris Peynado), ma i due, durante il viaggio verso la Spagna, incontrano Leonardo da Vinci (Paolo Bonacelli), al quale propongono una società, divisa in tre parti, tentando invano di spiegare come costruire un treno, utilizzare un termometro, azionare un semaforo, giocare a scopa. Il viaggio verso Palos ricomincia. Da lì, i due riprendono il loro cammino sino a imbattersi in un fumante treno a vapore, son convinti di essere tornati nel Novecento, ma alla guida c’è Leonardo disposto a dividere equamente il merito dell’invenzione.

14. la scena finale del film

Un film che coglie il puro piacere del divertimento, molte scene vennero girate più volte perché gli stessi attori non smettevano di ridere, quindi poco importa se l’intreccio è sfilacciato, se alcuni episodi restano irrisolti e se la regia non è perfetta. Vedere Benigni e Troisi sulla stessa scena è di per se già un piacere, anche perché l’affiatamento è inarrivabile. Nessuno fu la spalla dell’altro e, per fondersi magnificamente, vennero contenute le “balbuzie” del napoletano e l'”irruenza verbale” del toscano.

15. i due protagonisti illustrano le invenzioni a Leonardo da Vinci, uno straordinario Paolo Bonacelli

Per concessione di Benigni fu Troisi a girare la maggior parte delle scene di questo “giocoso disimpegno, lontano da pretesti autorali” (Mereghetti), ma si possono cogliere sottili annotazioni. Saverio/Benigni è più a suo agio negli abiti nell’epoca, in quegli anni l’attore era un formidabile giullare, mentre Mario/Troisi recupera, grazie al “vantaggio” di cinque secoli, il disagio nei confronti delle donne mostrato in Ricomincio da tre e Scusare il ritardo. Inoltre, se nell’espediente narrativo bloccare Colombo serve per salvare la sorella di Saverio, nella intenzioni, più o meno dichiarate, c’è l’idea di “salvare il mondo dagli americani” nonché una critica ai film “made in USA” che in quegli anni dominavano il mercato cinematografico. Non solo. Nella scena con un tonto Leonardo da Vinci, uno straordinario Paolo Bonacelli, nominato per l’interpretazione al David di Donatello, dopo aver “descritto” il treno, che chiuderà il film, Saverio/Benigni spiega a modo suo Marx e la lotta di classe dicendo “Il capitalista sfrutta l’operaio che non sa di essere sfruttato” e la teoria dell’inconscio di Freud. Un messaggio comunista (tra l’altro Enrico Berlinguer era morto un mese prima dell’inizio delle riprese) e un riferimento alle figure storiche, Marx e Freud, che i due attori si divertivano ad imitare. Più in generale “tra le righe emerge il discorso della comicità come antidoto alle storture della Storia che ispirerà La vita è bella” (Mereghetti).

16. la lettera a Savonarola

Numerose le scene memorabili: dalla lettera a Savonarola (ispirata alla celeberrima scena di Totò, Peppino e… la malafemmina, con i due protagonisti spaesati non nel “quasi Millecinque”, ma nella Milano della rinascita economica) a Mario che canta “Yesterday”, “Nel blu dipinto di blu” e “Fratelli d’Italia”; da il passaggio della dogana (girato diverse volte perché i due non riuscivano a trattenere le risate) all’incontro con Leonardo da Vinci, senza dimenticare il corteggiamento di Mario sulle spalle di Saverio.

Indimenticabili anche diverse battute divenute autentici tormentoni: “ricordati che devi morire” e la risposta “sì, sì, mo me lo segno” di Troisi, il “Grazie Mario!” della vecchia Parisina, “gli devi fa’ capire che hai capito…” di Vitellozzo, il “bisogna provare, provare provare” di Pia, il surreale dialogo alla dogana “Alt! chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Quanti siete? Un fiorino!” e il “Ma 9 per 9, farà 81?” quando i due protagonisti si fingono ingegneri davanti a Leonardo.

17. “Alt! chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Quanti siete? Un fiorino!”

Vennero, come detto, girati due finali e di fatto due versioni del film. Nella seconda fu lasciato più spazio alla figura dell’amazzone Astriaha che scambia i due protagonisti per uomini del rivale Alonso e poi intraprende con loro un viaggio verso la Spagna. La guerriera è corteggiata da Saverio, che per conquistarla si finge uno scrittore, autore dell'”Otello” di Shakespeare, ma si innamora di Mario. Il maestro elementare, geloso, le fa credere che l’amico bidello è davvero un uomo di Alonso. La donna sconvolta fugge. Tra Saverio e Mario scoppia un duro scontro che li porta a rincorrersi sulla spiaggia.

18. la seconda versione del film con l’amore tra Mario e Astriaha

In entrambe le versioni il finale non risolve e non spiega, in un misto di rassegnazione fatalismo, più vicino al cinema di Troisi, in cui ai due protagonisti, bloccati per sempre nel Medioevo, non resta che piangere. Da segnalare che in TV talvolta è stata trasmessa una versione sensibilmente più lunga. Dalla pellicola venne, infine, tratto un libro omonimo. Per anni si parlò di un sequel, ma complice anche l’improvvisa morte di Troisi, non fu mai realizzato.

Non ci resta che piangere costato poco meno di quattro miliardi di lire ne incassò oltre quindici battendo, in quella stagione cinematografica, il primo capitolo di Indiana Jones (I predatori dell’arca perduta), Amadeus, che quell’anno si aggiudicò l’Oscar e, perfino, C’era una volta in America di Sergio Leone.

19. Non ci resta che piangere, il puro piacere del divertimento

Una pellicola difficilmente collocabile nel percorso artistico dei due cineasti. Un magnifico “unicum” che singolarmente Benigni e Troisi, come dichiarato, non avrebbero mai fatto e che solo insieme potevano fare. Un film che confermò nell’Olimpo dei grandi Troisi e lanciò definitivamente Benigni.

Insomma, per rispondere ad una vecchia canzone di Raffaele Riefoli in arte Raf, degli anni Ottanta resteranno di sicuro i Mondiali di calcio vinti in Spagna, la “Vita spericolata” cantata da Vasco Rossi e quell’incontro magico e irripetibile che portò a Non ci resta che piangere.

MARCO RAVERA

redazionale


Bibliografia
“Roberto Benigni” di Cristina Borsatti – Castoro
“Il mondo intero proprio” di Massimo Troisi a cura di Marco Giusti
“L’applauso interrotto. Poesia e periferia nell’opera di Massimo Troisi” di Eduardo Cocciardo – NonSoloParole Edizioni
“Giuseppe Bertolucci” di Massimo Giraldi – Castoro
“Dizionario del cinema italiano” di Fernaldo Di Giammatteo – Editori Riuniti
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 10, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19 Screenshot del film Non ci resta che piangere; foto 1, 2, 3, 4, 5 Screenshot del film/trasmissione riportata in didascalia; foto 6 da storia.camera.it; foto 7, 11, 12 da gettyimages.com, foto 8 da Instagram, foto 10 da it.wikipedia.com.

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Corso Cinema

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