Lula è tornato. E rivuole il suo posto

Brasile. Dopo la caduta delle condanne per difetto di giurisdizione e dopo tre anni che non sarebbero dovuti esistere l’ex presidente torna in pista per le elezioni del 2022. Ma resta la questione morale. «Gioia contenuta» dal Pt, malgrado la «sconfitta terminale» di lawfare e Lava Jato

I«Non si deve più votare quel troglodita di Bolsonaro». Pochi minuti dopo la sentenza del Tribunale supremo federale che annulla tutte le sue condanne per difetto di giurisdizione Lula è già all’attacco, sparando a palle incatenate contro l’uomo che i giudici, più che gli elettori, hanno mandato a fare il presidente del Brasile al suo posto. Perché quello era il “suo” posto, e nel 2018 non c’era sondaggio – per fetente che fosse la committenza – che non assegnasse al leader del Partido dos trabalhadores una vittoria a valanga. Certo, i sondaggi non sono elezioni, epperò…

Gli ultimi tre anni non dovevano esistere, il presidente protofascista Jair Bolsonaro non doveva esistere, l’Amazzonia non doveva bruciare, indigeni gay donne e sindacalisti non dovevano essere perseguitati insultati e ogni tanto uccisi, il Covid non doveva massacrare 265mila brasiliani e magari non avrebbe fatto in tempo a mutarsi nella temibile variante sudamericana. Abbiamo scherzato, scusate tanto, premete rewind… Lula libre!

Invece Luiz Inàcio da Silva venne condannato dal giudice Sergio Moro, l’uomo che invece di Pelé aveva le foto di Di Pietro in ufficio, e che pretese di giudicare nel suo feudo di Curitiba ogni accusa contro il presidente di sinistra. Lula venne seppellito con 9 anni di galera per varie accuse di corruzione. Venne condannato in appello a tempo di primato mondiale, centinaia di migliaia di pagine di atti “riviste” in pochissimi giorni – e gli anni di galera diventarono 12. Venne impedito a candidarsi dalla legge sulle fedine pulite che proprio lui aveva voluto. E venne sostituito da un tribuno di ultradestra scelto da poteri che pensavano di controllarlo – e si ritrovarono un facocero impazzito alla guida del paese, insieme al covid che Bolsonaro negò e che puntualmente prese, a un party per il 4 luglio all’ambasciata americana dell’amico e negazionista virale Donald Trump.

Era l’esito di quello che i brasiliani chiamano lawfare, la via giudiziaria al potere o alla distruzione del potere altrui.

È un’operazione partita dopo le presidenze Lula del 2002 e del 2006, ha incluso l’assalto a Dilma Rousseff – l’economista petista succeduta a Lula nel 2010, cacciata nel 2016 da un golpe di palazzo e sostituita dall’esponente della tradizionale cleptocrazia Michel Temer – e si è articolata sulle inchieste condotte dal giudice Moro, che dopo il successo del suo lawfare è stato nominato ministro della Giustizia del governo Bolsonaro. Non è durato molto: El Capitan Bolsonaro è troppo per quasi tutti e minacciare a ogni piè sospinto il pau de arara (è il palo della tortura passato dietro a polsi e ginocchia dei prigionieri che vi vengono appesi) certo non aiuta.

Insomma il corrottissimo leader petista forse non era corrotto e comunque andrà giudicato a Brasilia, campo decisamente più neutro della letale Curitiba. Non che la questione morale non riguardi anche il Pt, sia chiaro. Nelle destre brasiliane la consuetudine al governo ha quasi sempre accompagnato quella alla rapacità, ma la sinistra – esclusa da colpi di stato, giunte militari e caciccati economici – non ha potuto praticare granché l’arte di riempirsi le tasche stando al potere.

Quando ha cominciato, l’ha fatto da dilettante della corruzione – la ola roja, l’onda rossa dei governi progressisti latinoamericani degli anni Duemila, non si pose nemmeno il problema dei suoi stessi mariuoli e finì per produrne una certa quantità. E nel Brasile di Lula diventò celeberrimo il mensalão, “stipendio” che il Pt pagava a vari politici per garantirsene il voto: nel 2012 fece finire in galera 25 big di politica e finanza, dal braccio destro di Lula, José Dirceu, al boss del Banco do Brasil Henrique Pizzolato, che fuggì in Italia grazie a un provvido passaporto tricolore ma venne arrestato mesi dopo a Maranello, dove come è noto si producono costose automobili – tanto male non doveva stare.

Nel novembre 2019 Lula uscì salutando a pugno chiuso dalla cella fatta solo per lui al quarto piano di una caserma di polizia di Curitiba. Aveva l’adorato Corinthians in diretta tv per gentile concessione dei carcerieri, ma aveva anche passato 580 giorni dietro le sbarre, e subìto il furto di presidenziali già quasi vinte. Ora è di nuovo candidabile.

Il PT parla di «gioia contenuta» per la sentenza che ripulisce la fedina di Lula (ci sarà pur sempre da affrontare un calvario di nuovi processi). Parla di «sconfitta terminale» per le operazioni di lawfare e soprattutto per l’inchiesta Lava Jato, condotta da Moro in modo così partigiano che ora sarà lui a doversi difendere. E insiste nel far sapere che candidabile non significa automaticamente candidato. Gli hanno tolto quattro anni e ora ne ha 75 e più di un acciacco, la sentenza del Tribunale supremo lo restituisce alla politica e una sua competizione contro Bolsonaro nel 2022 resta l’ipotesi più probabile: l’Estado de São Paulo, quotidiano conservatore, domenica ha pubblicato un sondaggio che vedeva già Lula al 50% e Bolsonaro al 38%.

Ma potrebbe anche appoggiare di nuovo Fernando Haddad, il candidato che il Pt scelse dopo la sua condanna, oppure il nome che uscisse da una coalizione di partiti di sinistra, oppure ancora l’uomo di una eventuale coalizione progressista allargata alle destre in rotta con Bolsonaro – e ce ne sono.

Nel frattempo Lula si gode le congratulazioni di mezzo mondo, comprese quelle di alcuni italiani del campo progressista: Nicola Zingaretti, Enrico Letta e Massimo D’Alema, e anche Beppe Grillo, hanno espresso soddisfazione per il ritorno del metalmeccanico che divenne presidente. Curioso, per uno accusato di corruzione. Più probabilmente, era curiosa l’accusa.

ROBERTO ZANINI

da il manifesto.it

foto tratta dal sito del Partito dos Trabalhadores

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