Le truppe invisibili del gas russo vanno alla guerra

Eccolo, finalmente, il gas! Questo attore dietro le quinte, questo improbabile escluso da una tragedia bellica che si voleva far passare come mera conseguenza di una rivendicazione confinaria da...

Eccolo, finalmente, il gas! Questo attore dietro le quinte, questo improbabile escluso da una tragedia bellica che si voleva far passare come mera conseguenza di una rivendicazione confinaria da parte russa e come reazione all’espansione democratica dell’Ucraina guidata da un comico populista: è arrivata l’ora di entrare in scena e di prendersi la parte che gli spetta.

Tra gli altri protagonisti, si intende: da una parte l’imperialismo atlantico che tenta di forzare gli storici quadranti di una Europa meno divisa di un tempo, ma comunque sempre separata in casa da vecchie ruggini tra poli che sono rimasti – nonostante le pulsioni liberiste di un mercato che si è intromesso ovunque – più coltelli che fratelli; dall’altro il blocco autocratico putiniano, bielorusso e kazako con simpatie coreane del nord, indiane e cinesi, siriane ed eritree nell’assemblea delle Nazioni Unite.

Tutti alla corte di Sua Maestà il Gas. Il vero zar di tutte le Russie, il potente signore cui si inchinano tutti i governi che non vogliono vedere andare in rovina le economie che li sostengono e avere, al contempo, sollevazioni di popolo.

Dopo quasi quaranta giorni di guerra, mentre le truppe russe si ridispiegano sul terreno, puntano (pare) più ad est, in direzione dell’arco di cerchio che comprende le martoriate Sumy, Kharkiv, gli oblast del Donbass per chiudersi a sud con il martirio di Mariupol, e mentre i media occidentali osano pronosticare un cedimento dell’esercito putiniano che lascia Chernobyl e il nord di Kiev, ecco che a prorompere sulla scena del conflitto arrivano i gasdotti.

Non che del gas non si parlasse, ma, almeno fino a quando gli effetti delle sanzioni erano ancora impercettibili e l’andamento della guerra pareva essere del tutto scontato, l’altro fronte, quello parallelo al conflitto palpabile, visibile e ridondante da ogni schermo televisivo, da ogni computer, tablet e telefonino, pareva stare davvero sullo sfondo. Pronto a scoppiare anch’esso, ma meno minaccioso dei tonanti discorsi di Putin e Zelens’kyj, persino delle presunte gaffes di Biden o delle dichiarazioni sempre più veementi di Boris Johnson in quel di Londra.

Fin dall’inizio della crisi ucraino-russa, ben prima che si concretizzasse l’aggressione armata di Mosca, ai critici della geopolitica mondiale e degli schemi di confronto e scontro tra le varie potenze (quelle vere, non quelle che si autodefiniscono propagandisticamente tali) era abbastanza chiaro che le materie prime del sottosuolo erano e rimanevano una importantissima componente di politica estera tanto della Russia quanto di Stati Uniti e Cina.

L’Europa di Bruxelles e della BCE è, da questo punto di vista, rimbalzata tra questi opposti interessi economico-strategico-politici, dipendendo per i settori tecnologici in larga parte dall’Asia sino-giapponese e dall’America a stelle e strisce; mentre per i rifornimenti di grano ed energia proprio dai due contendenti primi della guerra in atto.

In un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, non è più possibile fare a meno praticamente di niente: tutto ci occorre per essere al pari di una sufficiente sopravvivenza che ci consenta di mantenere la nostra autonomia economica in quei settori nei quali siamo esportatori.

E’ così un po’ da sempre, dagli albori del moderno capitalismo pre-liberista; ma nel corso del XX secolo questa ambivalenza si è spostata pesantemente sul piatto della bilancia di dipendenze che potremmo definire “multipolari“, perché la nostra politica estera non deve tenere più conto soltanto dei rapporti con l’Occidente atlantico, ma considerare l’utilità della nuova “Via della Seta” con Pechino e dei percorsi che, per l’appunto, i gasdotti fanno dalla Siberia fino alle nostre case.

Fatto sta che noi, l’Italia, ci troviamo, più o meno come gli altri paesi europei, a sopportare uno strabismo politico che risponde alle necessità fondamentali per il funzionamento del sistema-Paese, per la vita concreta di ogni giorno di tutte e tutti noi. La guerra sul campo la si fa con le armi propriamente dette, mentre quella economica la si fa firmando un decreto che obbliga da oggi i compratori del gas russo a pagare in rubli.

Se la guardiamo da questo punto di osservazione, la guerra la sta vincendo Putin: non solo incamera ogni giorno ben un miliardo di euro dall’Unione Europea ma da ora, con il rifiuto di accettazione delle altre valute per la vendita del gas, muove a sbloccare i fondi della Banca Centrale della Federazione Russa, rimettendo in moto tutto un circolo economico che vanifica, nella sostanza, gli effetti delle tanto magnificate sanzioni agli oligarchi e al regime.

A questo scenario dell’assoluta incertezza sull’esito finale della guerra va aggiunto il veramente poco impegno diplomatico da parte dei protagonisti del conflitto: Erdogan non è “il” mediatore, ma l’ospite dei contendenti, colui che cerca di ritagliarsi – tra la NATO da un lato e il Mar Nero russeggiante dall’altro – quello spazio di agibilità per inserire la Turchia (quindi il suo stesso potere politico e i suoi legami con i grandi satrapi dell’economia che lo sostengono) nel disordine che diventerà il nuovo ordine e che avrà comunque sempre nel Medio Oriente la porta girevole di accesso e uscita di canali mercantili plurimillenari.

Putin, a dispetto della saccenteria e della presunzione tutta occidentale dettata dalla presunta superiorità morale delle democrazie liberal-liberiste, sta giocando – purtroppo – molto bene le sue carte: quelli che a noi paiono dei rovesci militari sono tattiche che vanno a ridefinire strategie certamente rivelatesi sbagliate.

Ma i piani militari, per quanto è dato vedere dall’insegnamento della Storia, non vanno mai come si progetta e, soprattutto, come si pensa che debbano andare. Perché alla iniziale ottimista previsione sull’andamento di una guerra, lampo o meno che sia, seguono tutte le difficoltà che si incontrano quando gli altri paesi si sentono minacciati: prima di tutto nella loro sopravvivenza economica e sociale che è, quindi, sopravvivenza politica e statale.

Ma in questa guerra europea, iniziata il 24 febbraio 2022, una data che rimarrà per davvero nella Storia, le sottovalutazioni si registrano da entrambi gli schieramenti: se la Russia ha tenuto in poco conto la reazione del popolo ucraino, dando un giudizio pressapochista sul suo presidente e sul governo, visti come una “banda di drogati e neonazisti”, gli Stati Uniti e la NATO hanno ritenuto troppo a lungo che Putin alla fine non si sarebbe mosso, che non avrebbe tentato l’avventura bellica. E hanno sbagliato.

Le deterrenze di un tempo non sono applicabili all’oggi: non esiste più l’idea della spaventosa macchina da guerra americana capace di terrorizzare tutto il mondo come epifenomeno, pregiudiziale e retropensiero costante nelle potenze mondiali emergenti e riemergenti. La diffusione degli armamenti è divenuta così globale, così totalizzante, da contribuire a creare le condizioni della fine dell’unipolarismo.

E proprio gli USA hanno una responsabilità enorme nel sostegno al riarmo, che loro consentono, per le nazioni che sostengono la politica espansionista nord-atlantica che è, oggettivamente, una delle cause primarie della guerra che infiamma l’Europa dell’Est.

La mossa di Putin sul gas, dunque, è la reazione a tante azioni. Una mossa prevedibilissima, si può dire attesa da settimane e che ora costringe a ricalcolare nel pallottoliere della concorrenzialità cinica dei costi bellici (che non includono le vittime civili del conflitto) chi finirà per perderci di più. Rubli, dollari, euro, aperture di nuovi conti correnti alla Gazprombank (peraltro mai toccata dalla scure delle sanzioni occidentali), prime dichiarazioni di irrigidimento da parte di una Francia che usufruisce soltanto del 7% del gas russo per il suo fabbisogno e più timidi accomodamenti per la nostra Italia che invece importa il 40% delle risorse provenienti dalle rigide regioni siberiane.

Parlare di pace, da oggi, non significa più soltanto accordarsi sui confini ucraini, sulla Crimea, sul Donbass e sulla neutralità tra Est e Ovest. Da oggi sua maestà il Gas muove le sue truppe invisibili, per condotte enorme che arrivano fin dentro le nostre case e ci permettono di scaldarci, di mangiare e di lavarci senza rabbrividire. Mentre le sanzioni arriveranno, prima o poi, a far male a quei milioni e milioni di russi che sono del tutto incolpevoli e che diventeranno sempre più sostenitori di un regime che saprà far valere tutte le armi della propaganda tanto dentro i suoi confini quanto verso i suoi alleati. Che non sono pochi.

MARCO SFERINI

1° aprile 2022

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli