Le arance amare di Rosarno

C’è una video-inchiesta de Il Fatto quotidiano che racconta una storia di sfruttamento becero, di vero e proprio caporalato: è la storia, già raccontata ma purtroppo sempre attuale, degli...

C’è una video-inchiesta de Il Fatto quotidiano che racconta una storia di sfruttamento becero, di vero e proprio caporalato: è la storia, già raccontata ma purtroppo sempre attuale, degli aranceti del Sud Italia. E’ la storia di Rosarno, un tempo anonimo paese della Calabria, da alcuni anni diventato l’emblema della riduzione in schiavitù di quei migranti che, indipendentemente dal colore della pelle, vengono tutti etichettati come “i neri”.
“I neri” lavorano negli aranceti per 25 euro al giorno: 3 euro vanno al caporale che li carica sui camion la mattina e li porta nei campi.
Si spezzano la schiena e le braccia per più di otto ore al giorno: da quando sorge il sole fino al tramonto. E poi, alla sera, vanno a buttarsi in una baracca maleodorante, senza gas, luce, a volte anche senza acqua potabile.
Poi accade che qualcuno muore per le troppe fatiche, come accadde a Paola Clemente. Il sole e la fatica le fecero venire un infarto e la donna morì in quei campi di moderno schiavismo.
Ora, il governo ha messo in cantiere un disegno di legge che perseguirà duramente il caporalato e le preoccupazioni, paradossalmente, aumentano invece di diminuire.
Gli agricoltori, anche quelli che sono apertamente contro lo sfruttamento dei caporali, lamentano una già scarsa produzione e immissione nel mercato delle loro arance: la filiera premia le grandi catene di produzione dei succhi di frutta e punisce gli onesti che tentano di dare paghe decenti ai loro lavoranti.
E’ la storia del più grande che strozza economicamente il più piccolo. E’ la storia, sempre la stessa, della concorrenza sleale, ammesso che ne esista una leale, che porta i prodotti ad un ricarico del 4.300% sui banchi dei supermercati.
Noi li acquistiamo e pensiamo di far crescere magari il prodotto interno lordo spendendo i nostri salari e le nostre pensioni. Ed invece alimentiamo un circuito di sfruttamento che non trova la fine nemmeno con strumenti legali e buone intenzioni di chi, a sua volta un tempo emigrante, oggi non vuole giocare con la pelle dei più deboli.
Tutto si lega in un perfetto circuito che prosegue indisturbato e che tutti conoscono ma che nessuno riesce a fermare.
La stessa Coldiretti solleva dubbi sul provvedimento che dovrebbe essere portato avanti dal governo, pur evidenziando che è “un atto necessario, perché sul caporalato non si possono fare sconti”. Ma poi ci si mette di mezzo il “made in Italy” e quindi l’interesse economico torna a prevalere e a far storcere il naso su norme che costringerebbero ad un trattamento umano dei lavoratori, quindi ad una fornitura di tutele che costano e che, quindi, diventano immorali per il mercato. Pazienza se lo sono per i diritti sociali.
Le storie come quelle di Rosarno fanno il paio con tante altre storie di sfruttamento da nord a sud del Paese, si intrecciano con il razzismo, con le più forti tensioni che emergono quando si tratta di sopravvivenza tra poveri: la guerra che si innesca e che viene alimentata dalle destre, è sempre una lacerazione di comunità che invece potrebbero aiutarsi a vicenda.
Le storie come quelle di Rosarno sono la cattiva coscienza non solo di un mondo merceologico e di affari, ma sono principalmente la nostra cattiva coscienza che è drammaticamente impotente davanti ad una così palese violazione dei diritti umani più elementari.
Noi elogiamo lo spirito della Costituzione ogni volta che ne capita l’occasione, affermiamo che siamo un Paese democratico, pluralista, attento a non cadere nuovamente in rigurgiti fascisti e totalitari, ma poi assistiamo ad un destino che ci lambisce, ci sfiora, non ci tocca direttamente: e allora lasciamo fare, per le nostre tante paure, nascondendo il nostro orgoglio a volte liberale, a volte libertario, e mettiamo davanti la “dura realtà della vita” come se fosse un alibi per la nostra insipienza.
E poi, anche se proviamo qualche rimorso di ingiustizia, arrivano le notizie fresche del mattino che ci dicono come la disoccupazione, grazie al Jobs act, stia ricrescendo. Peccato che i dati siano contraddittori e che saltando dal penultimo all’ultimo mese del 2015 come riferimento statistico, la disoccupazione ora sale e ora scende di nuovo, impietosamente e con buona pace di tutti i democratici.

MARCO SFERINI

3 febbraio 2016

foto tratta da Pixabay

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