La Roberto Cavalli chiude Firenze. I 170 lavoratori: “Licenziamenti mascherati”

Lo striscione appeso davanti all’azienda di moda dice già tutto: “Qui giace la Roberto Cavalli. 1970-2020. Ne danno il triste annuncio 170 dipendenti privati di sede e dignità, e...

Lo striscione appeso davanti all’azienda di moda dice già tutto: “Qui giace la Roberto Cavalli. 1970-2020. Ne danno il triste annuncio 170 dipendenti privati di sede e dignità, e abbandonati dalle istituzioni”. Davanti i lavoratori, con in mano un cartello listato a lutto, con il proprio nome e gli anni di anzianità di servizio nella maison.

Dopo mezzo secolo di attività, un altro pezzo della manifattura fiorentina se ne va. Un’azienda che era fra le più famose del settore. Ora si chiude, a meno che nel tavolo di crisi in Regione, lunedì prossimo, il management di Cavalli e i sindacati non trovino una via d’uscita. Assai problematica, visto che fino ad oggi la proprietà – il fondo di sviluppo immobiliare Dubai Pramac Properties – non ha sentito ragioni: “Se volete continuare a lavorare, dovete trasferirvi a Milano”.

Pronta la replica dei lavoratori, dei loro delegati sindacali, e anche delle istituzioni, a partire dal sindaco Falchi di Sesto Fiorentino per finire con il Consiglio regionale toscano: “Si tratta di un licenziamento mascherato. Né più, né meno. Anche perché il piano industriale è ancora un mistero, almeno per noi. Se ne parla ma non l’abbiamo ancora visto”.

Eppure l’azienda non si è mai mossa dalle posizioni iniziali, annunciate il 20 aprile scorso, in piano lockdown da pandemia, e ufficializzate un mese dopo. In sostanza, chi si trasferirà a Milano non avrà incentivi ma solo quanto previsto dal contratto nazionale, una mensilità in più se ha familiari e mezza mensilità se single. Mentre chi deciderà di non spostarsi a settembre in Lombardia, interrompendo il rapporto di lavoro, potrà usufruire del cosiddetto “piano sociale”, con l’erogazione da sette a dieci mensilità a seconda dell’anzianità di servizio in azienda.

Per giunta la scelta deve essere fatta in fretta. In teoria scadeva la mezzanotte scorsa. Anche se il tavolo di crisi ancora in piedi fa pensare ad una, pur minima, proroga.

“Nell’era digitale e del Covid-19 – osservano ad una sola voce Luca Barbetti della Filctem Cgil e Mirko Zacchei della Femca-Cisl – la Roberto Cavalli è l’unica azienda nel paese che pensa sia strategico trasferire 170 famiglie a Milano, perché lì c’è la gestione dei servizi digitali. In realtà è un licenziamento mascherato. Durante il tavolo di crisi faremo di tutto per mettere in discussione una scelta davvero inaccettabile. Perché sono sempre di più le aziende della moda che scelgono l’area fiorentina per le loro produzioni, segno di una precisa vocazione del territorio. Invece Cavalli fa l’opposto…”.

I lavoratori e le lavoratrici non si fanno grandi illusioni, e parlano apertamente di scelte aziendale completamente sbagliate, dopo 30 anni e passa di successi. Tanto da portare la Roberto Cavalli nel 2015 nelle mani del fondo di private equity Clessidra per 390 milioni. E da lì, fallito il piano di risanamento, lo scorso anno (dopo un concordato preventivo) a Damac Properties.

“L’azienda è sempre una stata una bella realtà artigianale – raccontano – ma non è rimasto più nulla. Le tante boutique del mondo in questi ultimi anni sono state chiuse, la stamperia dimessa, e il settore della modelleria liquidato”.

Il sindaco Falchi, sul cui territorio sestese ha sede la casa di moda, in uno stabilimento ancora di proprietà, insiste: “Chiediamo chiarezza, serietà e rispetto per queste donne e questi uomini, le cui competenze hanno permesso alla Cavalli di diventare uno dei marchi più noti al mondo”. Si fa sentire anche il presidente del Consiglio comunale di Firenze, il metalmeccanico Luca Milani: “Pare che l’emergenza sanitaria, che tanto ha inciso sull’economia reale della società, non abbia insegnato niente a chi si occupa di lavoro”.

Un’ultima speranza, non solo per i lavoratori e le lavoratrici della Roberto Cavalli, risiede in un emendamento al “decreto Rilancio”, presentato dal deputato dem Andrea De Maria insieme ai parlamentari Serracchiani, Epifani e Soverini, per equiparare i trasferimenti collettivi senza accordo sindacale ai licenziamenti collettivi, dal momento che di fatto producono gli stessi effetti di perdita di posti di lavoro. Presentato il 4 giugno scorso, è in attesa di discussione ed eventuale approvazione.

RICCARDO CHIARI

da il manifesto.it

foto: screenshot da You Tube

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