Shebá veniva chiamato anticamente. Era il biblicamente mitologico Regno di Saba, ricco, bello, quanto la sua regina che, narra l’Antico Testamento, avrebbe tessuto rapporti con Salomone e gli avrebbe fatto visita per metterne alla prova la saggezza e la rettitudine. Migliaia e migliaia di anni dopo, i destini dell’Arabia Felix e della Palestina tornano ad intrecciarsi. Ammesso che si siano mai del tutto veramente disgiunti.
Dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre contro la popolazione israeliana (e ovviamente contro Israele stesso come entità statale e governativa), Tel Aviv ha praticamente dichiarato guerra all’intera Striscia di Gaza, al mondo palestinese, colpendo indiscriminatamente brigatisti e civili, campi base miliziani, quartieri, scuole, ospedali, campi profughi.
A questa azione genocidiaria è stato affiancato un ampliarsi del conflitto verso Hezbollah tanto in Libano quanto in Siria, contro postazioni anche iraniane.
Se il tentativo di tirare dentro la guerra mediorientale (perché è sempre più difficile poter parlare oggi di conflitto riguardante soltanto Gaza) l’Iran e altri paesi filopalestinesi da parte di Israele risulta oramai abbastanza evidente, meno lo era quello di contribuire ad un allargamento della guerra da parte delle potenze occidentali che, a partire proprio dagli Stati Uniti d’America, avevano mostrato sino ad ora una certa prudenza, proprio per evitare di venire coinvolti in una destabilizzazione dai contorni indefiniti, in una esponenzializzazione incontrollata e incontrollabile.
Ma, se si toccano direttamente interessi economici, commerciali e finanziari che riguardano anzitutto la presunta stabilità dell’imperialismo occidentale, del capitalismo liberista che poggia anche (e soprattutto) sulla distribuzione dei grandi approvvigionamenti petroliferi, gasieri e, in generale, delle grandi rotte marittime che riforniscono America, Africa ed Europa, contribuendo all’espansione della ricchezza nordatlantica, allora quella timida, prudenziale ritrosia a sostenere la prepotenza israeliana viene meno. Ed abbastanza repentinamente.
Là nella terra della Regina di Saba si combatte da decenni una guerra civile tra fazioni yemenite sunnite e sciite, tra governativi d’un tempo e ribelli divenuti governativi dell’oggi, tra comitati di controllo secessionisti, frange della vecchia Al Qaeda, sostenute dal mai del tutto vaporizzato Stato Islamico, a loro volta volta sostenute e sostenuti chi dalla Russia, dalla Corea del Nord e dall’Iran, chi dall’Arabia Saudita, dagli USA, dalla Gran Bretagna e da milizie anche paramilitari che si infiltrano nemmeno tanto occultamente in questi gineprai inestricabili di biechi interessi.
A farne le spese, neanche a dirlo, è una popolazione miseranda, priva di qualunque diritto: primo fra tutti quello ad una sopravvivenza quanto meno decente. Sabbia e pallottole, deserto e bombe.
Di questo è fatta la fotografia dello Yemen in cui le truppe un tempo guidate da Ḥusayn Badr al-Dīn al-Ḥūthī (da cui prendono il nome) oggi controllano praticamente il vecchio territorio del nord e la zona marittima che introduce da sud nell’interno del Mar Rosso. Da lì, dicono gli analisti più aggiornati ed informati, passa quasi il 20% del traffico marittimo di tutte le merci distribuite nel globo.
Molte di quelle navi container attraccano nei porti israeliani e, proprio quelle lì destinate, sono state oggetto degli attacchi delle milizie Huthi. Il risultato è stata la deviazione delle rotte commerciali verso l’unica via possibile per raggiungere tanto le Americhe quanto il Mediterraneo: il Capo di Buona Speranza.
La circumnavigazione dell’Africa oggi è più rapida rispetto a secoli fa, ma comunque due settimane occorrono a quelle grandi chiatte che sono sormontate da piramidi di container e che, quindi, viaggiano moto più lentamente rispetto a qualunque altro mercantile o nave non civile. I costi delle merci, dei carburanti e dei permessi per i trasporti sono tutti saliti alle stelle col rischio di ricadere sulla già incertissima economia occidentale.
Dicono da Washington e da Londra che, la motivazione fondamentale degli attacchi aerei e dei bombardamenti del territorio yemenita sia proprio questa: una natura prettamente economica, di difesa dei propri connazionali imbarcati, delle flotte mercantili che battono bandiere a stelle e strisce e Union Jack, nonché i classici mercantili con il vessillo panamense. C’è da crederci fino ad un certo punto, perché il Consiglio Supremo Politico di Sana’a è un governo sostenuto dall’Iran che, a sua volta, sostiene la causa palestinese.
Che possa trattarsi soltanto di una azione di difesa, di un avvertimento agli Huthi perché la smettano di attaccare le navi che vorrebbero far rotta nel Mar Rosso, è davvero molto difficile da poter credere.
Le implicazioni, infatti, non possono rimanere circoscritte nell’ambito di una sorta di “avvertimento” tra Stati, di ritorsione propriamente detta per provocatori attacchi a navi mercantili e civili. E’ del tutto evidente che un blocco marittimi operato dalle marina militare americana e anche da quella britannica avrebbe avuto un effetto probabilmente più impattante rispetto al bombardamento delle basi delle milizie Huthi.
Biden, il Pentagono e Suniak sanno benissimo che attaccare l’amico del proprio nemico storico (leggasi: Iran) è un biglietto da visita per l’allargamento del conflitto mediorientale, per un coinvolgimento davvero su vastissima scala dei paesi arabi e africani che si affacciano ai confini degli Stati che sono in guerra fra loro e di quelli che la guerra la fanno per procura, fornendo armi ai loro sostenitori in un rapporto di mutuo aiuto e sostegno permanente. I destini degli assi geopolitico-militari (ed economici) del mondo moderno si vanno quindi cristallizzando.
Da un lato Hamas, Hezbollah, Iran, Yemen, Russia, Corea del Nord (ed in parte anche Cina, India, Sudafrica, Brasile, Cuba, ecc.), dall’altro Israele, Stati Uniti, paesi europei, Gran Bretagna, Corea del Sud. A metà strada, pur con simpatie per il primo blocco, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, paesi africani che affacciano sul Mediterraneo e nuovi e vecchi alleati nelle varie guerre imperialiste disseminate nel corso della storia dal secondo dopoguerra ad oggi.
L’attacco americano e britannico allo Yemen viene descritto da giornali, televisioni e siti Internet come una risposta ad un gruppo di milizie piratesche.
Si tratta, invece, di un governo yemenita consolidato, che ha rapporti ufficiali con una vasta parte del mondo e che ha dimostrato, anche grazie al fanatismo islamista di cui è compenetrato, di essere una tenace forma di resistenza armata contro attacchi potenti che gli sono stati portati da Riyad e dalle coalizioni che si sono formate nel corso della lunghissima guerra civile che non conosce tutt’oggi una data di termine.
Trattare gli Huthi come un fenomeno transitorio e quasi dilettantesco può funzionare per un certo tempo a livello propagandistico, ma alla fine risulta essere una coazione a ripetere degli errori di sottovalutazione già sperimentati dall’Occidente nei confronti tanto di Al Qaeda quanto del Daesh, oppure della stessa Hamas. Del resto, la risposta di Washington e Londra alle incursioni delle milizie di Sana’a nelle rotte commerciali del Mar Rosso è essa stessa la dimostrazione del fatto che i governi americano e britannico sono consapevoli della forza militare di questa organizzazione.
L’impressione che se ne trae in queste ore rimanda a scenari davvero già visti: pare di essere immersi una sorta di déjà vu senza soluzione di continuità, in cui non c’è nessuno spazio per azioni di contenimento dei conflitti già in corso, ma dove invece a guerra corrisponde solo guerra.
Questo, facendosi beffe anche delle risoluzioni dell’ONU che, nemmeno ventiquattr’ore prima avevano deliberato una condanna esplicita degli attacchi degli Huthi e auspicavano la formazione di un fronte internazionale di preservazione di queste violenze con metodi tutt’altro che ugualmente violenti.
Mentre alla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite si discute degli intenti genocidiari di Israele, mentre a Taiwan si tengono elezioni di rinnovo delle cariche istituzionali che vengono viste da Pechino come una plateale e palese minaccia indipendentista all’unità della nazione, mentre la guerra in Ucraina prosegue senza sosta e Londra regala a Kiev altri due miliardi e mezzo di aiuti militari, mentre a Gaza si combatte sulle macerie e i palestinesi muoiono in Cisgiordania per la furia colonizzatrice dello Stato ebraico, nel Golfo di Aden si posiziona l’ennesima bandierina.
Quella di un pezzetto di guerra in più che si affianca a tutte le altre e che dipinge le tinte fosche della morte e rosse del sangue di migliaia di civili innocenti stretti tra i conflitti che questi imperialismi combattono fra loro, dichiarandosi delle sfide estreme la cui soluzione appare davvero lontanissima nel tempo.
Per ora gli obiettivi americani e britannici sono stati prevalentemente siti di carattere militare. Sembra che siano stati portati ben un centinaio di attacchi sul territorio yemenita e che siano stati distrutti arsenali e postazioni radar, basi militari e navali degli Huthi.
Che non rimarranno sicuramente a guardare e a subire. La grande domanda ora è, però, quella che ci si poneva all’inizio di queste righe: Washington ha abbandonato la prudenza e, al pari di Israele, ritiene conveniente trascinare Teheran in una guerra regionale, oppure intende limitarsi – sottovalutando il tutto – ad una azione mirata contro le sole milizie islamiche yemenite?
Questo è il quesito a cui dovremmo provare a dare una risposta oggi. Ma la risposta, ovviamente, è tanto necessaria quanto inafferrabile; soprattutto perché gli attacchi alle basi Huthi non avranno come effetto quello di trattenere i cosiddetti “ribelli” o “pirati” dal compiere azioni in favore della causa palestinese (ma principalmente in sostegno alla fratellanza che li lega ad Hamas) e, pertanto, si produrranno reazioni a catena potenzialmente davvero esponenziali e non riconducibili ad uno schematismo tipicamente bellico.
La guerra asimettrica portata avanti da Israele, quelle per procura degli Stati del Golfo Persico, quelle dei tantissimi gruppi terroristi disseminati dal Sahel all’Afghanistan; per non parlare di quelle a colpi di intromissioni economiche dirette e indirette negli affari interni di Stati già privati di qualunque sovranità, a cui rimane soltanto lo spettro della guerra civile come immagine mortifera e mortificante di sé stessi. Tra tutti il Sud Sudan… Questo scenario veramente desolante e inquietante sta assumendo il fisiognomico tratto di una vera e propria guerra mondiale a pezzetti, a tappe.
Come aveva suggerito papa Francesco qualche tempo fa, con una brillante analisi geopolitica ridotta efficacemente a metafora, ma neppure poi tanto. Le sue parole furono: «La terza guerra mondiale a pezzi è un conflitto globale». Questo è il punto essenziale: la globalità. Nessuno scontro tra due Stati è più possibile come fatto a sé stante, come diatriba isolabile dal contesto.
Se anche nella Storia umana questo è potuto avvenire e, quindi, una guerra non ha avuto ripercussioni anche indirette sui paesi che le confinavano intorno ma che le stavano politicamente lontani, oggi questo paradigma è l’antitesi dell’attualità corrente e, anzi, ciò che poco tempo fa era inusitato oggi diviene la cifra delle conseguenze della globalizzazione economica liberista. Così come le merci devono viaggiare ovunque, così le guerre sono intersecabili mediante interessi che possono sembrare anche antitetici ma che, invece, figurano come sostegno di secondo, terzo, quart’ordine.
I problemi strutturali di una economia che giganteggia nella sua crisi moderna, con i problemi eco-sociali, con le migrazioni spaventose in cui perdono la vita decine di migliaia di persone trattate come schiavi e merce di scambio, si riverberano nelle tante guerre che, pur nella loro sembianza di conflitti regionali e bilaterali sono, invece, costretti ad integrarsi sotto l’egida di un ecumenismo liberista che piega militarismo e politica alla logica della prevalenza come potenza economica di una determinata area chi fa quella data guerra.
Vale per la Russia di Putin che respinge l’avanzata della NATO invadendo l’Ucraina e vale per la Turchia di Erdogan che si espande a ridosso della Siria e dell’Iraq cercando, così, di fagocitare il problema curdo e di garantire ad Ankara una fascia di sicurezza attraverso cui gestire i traffici che passano nella intricatissima zona della vecchia Mezzaluna fertile.
E vale, ovviamente, per Israele che ridisegna sé stesso nel sogno di una grande nazione egemone tra il deserto e il Mediterraneo, con quell’appoggio occidentale che oggi pare arrivare anche da sud, oltre che dai rifornimenti di armi tramite le navi che vanno in lungo e in largo dal Pacifico alle vecchie sponde dei porti galilei.
Guerra globale e imperialismo globale hanno appena iniziato a conoscersi e riconoscersi. Quella terza guerra mondiale di cui parlava il capo della Chiesa cattolica è, nel nome dell’annientamento di interi popoli, appena cominciata.
MARCO SFERINI
13 gennaio 2024
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