La distanza tra popolo e istituzioni: anticamera dell’autoritarismo

Gli indicatori dell'”umore” dei cittadini, indagini Demos, sondaggi commissionati da quotidiani, dati dell’ISTAT e rilevazioni estemporanee fatte in dibattiti televisivi, ci parlano di un popolo che sempre meno crede...

Gli indicatori dell'”umore” dei cittadini, indagini Demos, sondaggi commissionati da quotidiani, dati dell’ISTAT e rilevazioni estemporanee fatte in dibattiti televisivi, ci parlano di un popolo che sempre meno crede nella complessità del sistema democratico inserito nella struttura dello Stato: mal ne incorre, seppur indirettamente, anche alla forma del medesimo, quindi alla Repubblica, tanto quella con l’iniziale maiuscola e ancor peggio per quella con la minuscola, il concetto, l’essenza della “repubblica” stessa.

Gli italiani avvertono un distacco nei confronti delle istituzioni, ma non per tutte e non allo stesso modo: se la magistratura conserva una fiducia a corrente alternata, la Presidenza della Repubblica invece la mantiene costante, anzi la aumenta addirittura. In questo caso, il ruolo di garanzia trova piena espressione nella consapevolezza che i cittadini hanno sul Quirinale, arbitro delle controversie tanto interne al governo quanto tra maggioranza e opposizione, oltre che tra i diversi poteri dello Stato.

Il Presidente, in effetti, nell’anno che si sta per chiudere, ha rispettato l’autonomia del Parlamento e ha favorito il dialogo tra le forze politiche: nei momenti di crisi è apparso come l’ultimo bastione di una difesa della democrazia repubblicana che si faceva fatica a scorgere in seno a Camere rissose, piene di contraddizioni, laddove le maggioranze si componevano e scomponevano nel peggiore dei quadri di un trasformismo persino indegno dell’originale di novecentesca memoria.

La formazione dell'”opinione pubblica” (quindi di tante singole opinioni che sfumano a mano a mano che ci si allontana dal singolo e si guarda l’interezza della popolazione) è un complicato meccanismo di assunzione delle informazioni da parte dei cittadini che le attingono in tempi, modi e quindi tramite canali ampiamente differenti tra loro pur venendo a conoscenza della medesima notizia.

Viviamo in una democrazia liberale (e liberista) e quindi il mercato concede tutta la libertà formale possibile per acquisire elementi di conoscenza tali da creare un autoinganno di massa attraverso incroci tra il “sentito dire” e le notizie invece letteralmente capovolte dalla superficialità di una lettura o di un ascolto ampiamente privato dei particolari che consentirebbero di formare davvero una opinione sui fatti e non viziare quella sintesi che diventa poi il “sentire comune“.

La “percezione” è all’ordine del giorno e surclassa di gran lunga la “comprensione” di ciò che accade. I dati statistici sempre più spesso si riferiscono al primo concetto quando intendono indagare il sentimento popolare su un determinato argomento, tema o situazione sociale e politica.

La comprensione dei fatti è subordinata alla percezione e, pertanto, diventa un elemento quasi strutturalmente messo in secondo piano in un contesto quotidiano fatto di sensazioni e non di verifica della veridicità degli accadimenti. Si procede nemmeno più attraverso il venticello della calunnia; si arriva direttamente al vento impetuoso del superamento della verità oggettiva mediante campagne, fatte nell’immediatezza della velocità deleteria dei “social network“, visive, dove un titolo brevissimo e fuorviante pilota la inconsapevolezza delle gente e ne manipola il pensiero (potenzialmente) critico.

Ma, fuori dall’analisi (o presunta tale) del fenomeno, occorre interrogarsi sulle ragioni che, al di là del metodo di trasmissione moderna delle informazioni, tengono lontani i cittadini da determinate istituzioni della Repubblica: ritenere il Parlamento, ad esempio, un luogo dove non si fa altro se non litigare e, quindi, non vedere in esso invece il fulcro della democrazia costituzionale, è il trionfo non tanto della cosiddetta “antipolitica” quanto della sostituzione della lentezza che il sistema parlamentare esige (soprattutto con tutte le sue garanzie: prima fra tutte il bicameralismo perfetto) con forme di decisionismo immediate, subitanee, veloci, rapide e incontrovertibili.

Una immagine delle istituzioni che chiaramente suggerisce la sostituzione della “farraginosità” del Parlamento con l'”uomo forte“, con concetti come “i pieni poteri” reclamati alcuni mesi fa senza che una levata di scudi si frapponesse a difesa della democrazia davanti a chi riteneva di poter anche solo pronunciare una frase simile.

Per questo il rapporto tra cittadini ed eletti, rappresentati e rappresentanti, quindi popolo ed istituzioni e reciproco distacco o simbiosi (magari sarebbe più appropriato parlare di “interazione“) va costantemente monitorato ed anche studiato nelle sue declinazioni sociali influenzate dalla struttura economica: perché senza una chiara ed oggettiva valutazione che entri nel merito delle questioni che si trovano sul tappeto dell’azione di governo, senza un chiaro indicatore dei rapporti tra i poteri dello Stato, anche il regime democratico apparentemente più solido, rischia di franare come un castello di carte.

In questo, la sinistra di opposizione può trovare un’altra sfida da percorrere e fare propria, quasi come una esclusività della sua necessaria differenziazione con tutte le altre forze politiche: stabilire il primato del pubblico sul privato e uniformare tutte le sue proposte in tal senso facendone non tanto richiami ad un mondo possibile, ma ad una società in continua trasformazione nell’oggi, senza scadere nelle trappole del riformismo, ma richiamando per sé stessa e per quella moderna società di sfruttati che intende rappresentare un elemento quasi deontologico di una politica dell’alternativa non fondata su sterili proclami ma su precise proposte programmatiche.

Tuttavia la sterilità delle proposte è destinata a rimanere tale se non si allargherà la platea del consenso e, pertanto, è necessaria una azione strettamente politica, non tanto di “propaganda” quanto di pedagogia sociale da praticare con nuovi strumenti di comunicazione, di interattività veloce, con immediatezza, senza troppe analisi di fondo, ma con molte analisi già compiute, con una nuova “cassetta degli attrezzi” pronta per l’uso.

La sfida per i comunisti è non solo esistere, ma per l’appunto resistere mediante tutte queste sfide culturali e pratiche per insistere ancora nella necessaria lotta per l’emancipazione sociale, civile, morale: umana e naturale al tempo stesso, senza cui non esiste alcun futuro per nessuna specie vivente su questo martoriato pianeta.

MARCO SFERINI

27 dicembre 2019

Foto di bstad da Pixabay

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