I salari sono bassi? E’ colpa dei lavoratori!

La favola antica racconta che a causare gli sbalzi inflazionistici sono gli aumenti dei salari e, quindi, soprattutto nei momenti di peggiore crisi economica, e di riversamento di questa...

La favola antica racconta che a causare gli sbalzi inflazionistici sono gli aumenti dei salari e, quindi, soprattutto nei momenti di peggiore crisi economica, e di riversamento di questa su larghissima parte delle lavoratrici e dei lavoratori, nonché di precari e pensionati, il primo intervento cui si deve disporre un governo è fare tutto il possibile affinché il costo della vita si stabilizzi ma, al contempo, gli stipendi non si espandano nel loro potere di acquisto.

E’ la favola antica, per l’appunto. E siccome è tanto vecchia quanto il capitalismo (parecchi secoli, ormai), è divenuta un mantra dogmaticamente immarcescibile: non la corrode nulla, tanto meno l’evidenza, l’oggettività dei dati che anche in questi mesi autorevoli quotidiani e organi di approfondimento come “Il Sole 24 Ore” o le ricerche istituzionali della Banca Centrale Europea hanno svolto proprio sul tema inflazionistico rapportato a quello salariale.

C’è chi si ostina ad affermare, soprattutto nell’area della maggioranza di destra e nei corridoi governativi, che il legame tra crescita del costo della vita e aumento dei salari è inoppugnabile. Lo è, ma esattamente al contrario di quel che si può pensare. A meno di non voler asserire che a Bruxelles sono delle quinte colonne sindacali o della sinistra di alternativa… E riuscirebbe difficile già il solo ipotizzarlo.

La realtà è che l’aumento inflazionistico di questi mesi è stato principalmente causato da un aumento dei costi di produzione che si sono però eccessivamente rivalsi sui costi dei prodotti fatti e finiti, disposti come merci nei supermercati e nei negozi.

Per quanto la crisi economica, alimentata dalla sommatoria dei fattori pandemici con quelli bellici e con l’emergenza climatica, abbia morso il freno sul piano imprenditoriale e aziendale, la BCE evidenzia tutti i ricavi profittuali ottenuti dalle grandi imprese europee, mentre i salari sono rimasti al palo.

Nessun aumento salariale, in sostanza, determina una crescita del costo della vita, ma semmai gli esorbitanti incrementi dei prezzi delle merci hanno creato un corto circuito noto e stranoto: un impoverimento costante e continuo del carrello della spesa, un restringimento della domanda e un rischio di stagnazione della produzione.

Nonostante tutti i profitti fatti in questi anni: con lo sviluppo di una filiera farmaceutica tutta nuova per affrontare anche in futuro nuove emergenze pandemiche; con anche un rifinanziamento dei settori dediti alla costruzione di armamenti sia leggeri sia pesanti.

Mentre l’indice delle grandi imprese era puntato sui salari, accusati di essere la vera e sola ragione dell’instabilità inflattiva al rialzo, e mentre i mercati hanno continuato a gestire questa crisi sociale come causa di sé stessa cercando dai governi misure atte alla protezione esclusiva dei margini di profitto a scapito delle misere paghe italiane (rispetto al resto dei paesi europei, persino di quelli della fascia mediterranea, notoriamente i meno virtuosi), la BCE e il Fondo Monetario Internazionale, quindi non certo due centrali dell’Internazionalismo proletario e comunista, hanno voluto vederci chiaro.

Ovviamente non per questioni riguardanti una conversione pseudo-ideologica ad una qualche forma di giustizia sociale, ma per evitare che la povertà dilagante non trovasse una ragione, un punto di riferimenti. Senza andare troppo per il sottile, sia la BCE, sia l’FMI ed anche la Federal Reserve americana hanno convenuto, dati alla mano, che l’attuale crescita dell’inflazione è da attribuirsi quasi esclusivamente all’aumento dei costi delle merci traslati dai costi di produzione.

Per quanto questi ultimi possano essere stati gonfiati oggettivamente dal rincaro delle materie prime, il prodotto finale che arriva nelle reti di grande distribuzione commerciale o sul mercato internazionale (ad esempio delle armi…), subisce una sopravvalutazione così sproporzionata da consentire, nel rapporto tra costi e ricavi aziendali, un margine di profitto per le imprese pari ad oltre il 10,6% (fonte BCE).

Mentre, di contro, i salari e le pensioni hanno perso tra il 2022 e i primi mesi dell’anno in corso ben duemila euro in potere di acquisto. E’ l’inflazione a riversarsi come ultimo pesante anello forte della catena della crisi sugli stipendi e sugli assegni dell’INPS, non il contrario. Come si sia potuto sostenere che la povertà di tanti sia la causa del minor introito di profitti e della diminuzione della ricchezza di pochissimi è davvero incredibile.

Ma è comprensibile come narrazione completamente falsa in un liberismo che deve attribuire le ragioni della sua disfatta attuale non alla gestione dei pochissimi grandi gruppi e imprese che costituiscono le centrali del potere economico e finanziario; bensì a centinaia di milioni di indigenti o, comunque, di una larghissima parte del ceto medio che, impossibilitati ad emergere dalle paludi asfittiche di una crisi che pare irrimediabilmente endemica, devono, e non possono quindi non essere, la ragione del malessere sociale stesso.

Ne consegue che alle lavoratrici ed ai lavoratori si richiedono quindi regimi orari sempre più schiavizzanti, corrispondenti a salari indecenti, a contratti capestro, a rapporti tra impresa e maestranze, tra grandi gruppi virtuali e modernissimi sfruttati in bicicletta e in moto, impalpabili, ingestibili sindacalmente. La responsabilità della povertà è dei poveri stessi – sostiene una vulgata liberista smentita persino dalla BCE! – e a loro va attribuita la rovina dell’intera società.

E’ un capovolgimento a centottanta gradi della verità testarda che i numeri della finanza e della macroeconomia ci regalano per sbugiardare in particolar modo le fazioni politiche che sono più liberiste dei liberisti stessi.

Il governo Meloni non è da meno: invece di sostenere delle misure che facciano espandere i settori pubblici, che incentivino la contrattualità di lungo termine e costringano le imprese ad un compromesso col mondo del lavoro, si dispone anche nei prossimi mesi a dare fiato alle trombe di una applicazione del PNRR coerente con una riforma istituzionale e incostituzionale dei rapporti tra i territori locali, tra le regioni.

Autonomia differenziata e liberismo spinto sono due facce della stessa medaglia: anche in questo caso si colpevolizza l’arretratezza, chi resta indietro, chi non ce la fa a stare al passo con il resto del Paese che corre di più (si fa per dire…) e si differenzia in base alle diseguaglianze, non invece in base alle uguaglianze che andrebbero estese a tutta la popolazione in forme tanto di diritti quanto di doveri.

Il teorema che pretende di accusare i denuncianti della crisi economica di essere i colpevoli della stessa, somiglia tantissimo a quello che accusa i giovani che scendono nelle piazze per protestare contro la catastrofe ambientale di essere i responsabili di un inquinamento mai visto.

Per un consumismo alimentato dal consumo stesso indotto dal mercato, per tutta una serie di bisogni fittizi che soltanto il capitalismo genera al fine di perpetuarsi a scapito della natura, dell’ecosistema globale e dei tantissimi micromondi biologici in cui viviamo e che vengono devastati dalle cosiddette “grandi opere“.

Occorre ripensare e ripensarsi. Soprattutto occorre scrollarsi di dosso il senso di colpa che capitalisti, finanzieri e governi vorrebbero vivessimo ogni giorno come dimostrazione di tutta l’importanza rigeneratrice di una ricchezza che non deriverebbe da noi ma solo dalle geniali intuizioni degli imprenditori e del loro ristretto mondo fatto di soli privilegi e sfruttamento.

Siamo proprio tutte e tutti noi a permettere loro di possedere immense ricchezze e a consentirgli di mostrasi come i veri sostenitori del benessere mondiale. Siamo noi a pensarci come parte del problema e non anche della soluzione. Loro, i padroni, i manager, coloro che si spartiscono i dividendi aziendali, non potranno mai essere parte della soluzione. Perché non sono in grado di essere il contrario di loro stessi.

E’ una legge socio-economica, quasi antropologica: la funzione che hanno in questo sistema è di dominio economico, sociale, politico e culturale.

Il sovvertimento di tutto questo, ancora una volta, appartiene, come leva scardinante (e quindi rivoluzionaria) alla grande massa degli sfruttati, dei precari, dei disoccupati, dei lavoratori tutti. Degli studenti ed anche dei pensionati: è una classe contro un’altra classe. E’ un lotta che hanno fatto credere fosse finita con il Novecento, invece è ancora qui: tutta quanta. Anche se pare non ci sia, anche se pare impossibile da realizzare.

MARCO SFERINI

4 marzo 2023

foto: screenshot

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