Gli imperialismi, dalla supremazia all’istinto di sopravvivenza

Un po’ frettolosamente, alcuni commentatori e giornalisti, dopo la ritirata russa a nord di Kiev, hanno pensato di poter suggerire ai propri lettori e telespettatori le nuove strategie del...

Un po’ frettolosamente, alcuni commentatori e giornalisti, dopo la ritirata russa a nord di Kiev, hanno pensato di poter suggerire ai propri lettori e telespettatori le nuove strategie del Cremlino sulla condotta di una guerra in cui Putin non mirasse più alla conquista dell’intera Ucraina, ma solo del Donbass e di alcune altre regioni meridionali per far arrivare i confini russi alle porte della Moldavia e della Romania.

L’ansia di dimostrazione della potente reazione occidentale contro un esercito, quello di Mosca, che ha dato evidenti segni di stanchezza, di impreparazione e che, pertanto, aveva lasciato pensare ad un ripensamento della strategia complessiva tanto dello stato maggiore quanto di Putin stesso, ha ingannato anche i più esperti sul campo, quelli che ogni giorno dalle pagine dei quotidiani compilano il bollettino di guerra e segnano con le bandierine gli spostamenti del fronte.

Per qualche momento abbiamo un po’ tutti ritenuto che la guerra fosse ad una svolta, dopo due mesi e mezzo di combattimenti, di massacri, di veri e propri eccidi e di distruzione totale di intere città. Ma ora, che siamo oltre il novantesimo giorno di tutto questo orrore, pare proprio doversi riconsiderare il tutto, iniziando dal rapporto tra i tempi della guerra stessa e la percezione che se ne ha sul momento: essendo impossibile sapere quando finirà, ogni attimo diventa quello buono per un auspicio in tal senso.

E sulle ali di questi auspici volano tanto le speranza dei pacifisti quanto quelle dei mercanti di armi: i primi sperano nel cessate il fuoco e in una conferenza internazionale che risolva la controversia pluridecennale tra Russia e Ucraina; i secondi che la guerra prosegua, che si consumino più quantitativi possibili di proiettili, di mezzi pesanti, di droni, di qualunque cosa incrementi il mercato della morte che frutta milioni e milioni di dollari e fa salire il valore azionario delle aziende quotate nelle borse di mezzo mondo.

E’ evidente che l’offensiva russa nel Donbass, la quasi totale conquista dei due oblast’ di Donetsk e di Lugansk, non è l’atto finale della guerra.

Putin non si fermerà perché è stato messo, proprio da chi democraticamente proclama di volerlo fermare, nelle condizioni di non fermarsi. La promessa americana di invio a Kiev di missili a lungo raggio, capaci quindi di colpire le principali città russe, non è una dichiarazione distensiva. Così non lo sono quelle di Lavrov che risponde per le rime. E così non lo è nemmeno il blocco delle navi cariche di grano che andrebbe destinato ai paesi più poveri del mondo.

L’escalation bellica non si misura soltanto dal tipo di armamenti che vengono utilizzati per fronteggiarsi, ma pure dalle misure collaterali che vengono prese per giocare tatticamente tutto attorno al conflitto guerreggiato sul terreno.

Quando gli ucraini ammettono che i russi stanno avanzando prepotentemente in Donbass e che mirano al centro dell’Ucraina, consolidando così le posizioni meridionali, l’asse che va dalla Mariupol rasa al suolo fino ai margini di Odessa, ci dicono che la situazione sta rovesciandosi e che dai territori ampliati delle repubbliche separatiste può arrivare la minaccia al resto del paese.

Il tempo della guerra, quindi, è molto differente dal tempo nostro, perché le notizie frammentate vanno ricomposte e il quadro della situazione non lo si può stabilire con certezza giorno per giorno ma semmai settimana per settimana. Quotidianamente si può osservare la reazione agli attacchi, la disposizione delle truppe e il loro avanzare o ripiegare a seconda dei casi. Ma il bilancio di una battaglia, che solitamente non dura poche ore, lo si fa alla fine della stessa, quando una delle due parti dichiara di aver perso quel territorio oppure di averlo riconquista con assoluta certezza.

La certezza, in questi frangenti, sta tutta nei rapporti di forza sul campo: il numero delle truppe, i pezzi di artiglieria, la superiorità aerea e, parallelamente, la contesa mondiale fatta di sanzioni, di blocchi navali, di attacchi informatici, di spionaggio telematico, di contenimento dei rapporti economico-finanziari con gli altri Stati.

Aver ritenuto che la guerra fosse diventata “regionale“, limitata alle dichiarazioni putiniane sugli obiettivi da ottenere con l'”operazione militare speciale“, significa soltanto aver cercato di far passare un propagandistico messaggio sulla debolezza di una potenza mondiale che invece è, purtroppo, in grado di mostrare i muscoli e di minacciare tanto quanto gli Stati Uniti, la NATO e tutto il blocco occidentale unito nella finta crociata per la libertà democratica dell’Ucraina europeista dove non hanno spazio le opposizioni politiche ben da prima che la seconda fase della guerra scoppiasse.

Le similitudini tra le politiche estere dei presunti opposti imperialismi (opposti solo per gli interessi differenti che intendono difendere e che reclamano con le guerre) sono i caratteri fondanti di una guerra che si preannunciava lunga già nei suoi preparativi di febbraio. Una guerra che non è mondiale se si considera solamente il fronte su cui si combatte. Per il resto è più che mondiale, è veramente una guerra globale che non risparmia nessun angolo del pianeta perché ha implicazioni dirette sulla vita di tutti i popoli.

Che l’escalation sia tutt’ora in corso lo dimostra pure il blocco dei porti, il fermo delle navi che contengono il grano: l’allarme lanciato dalla FAO e dall’ONU sulle ripercussioni che se ne avrebbe in particolare sui paesi africani, asiatici e dell’America Latina, quindi sulle aree più depresse del pianeta, è più che opportuno e giusto ma viene echeggiato in una economia ormai di guerra senza più alcun se e alcun ma. Il conflitto, quando anche cessasse di essere combattuto sul terreno, rimarrà comunque per decenni e decenni come atto fondativo di una nuova fisionomia geopolitica mondiale.

La fine della guerra è vincolata a ben più della conquista di due regioni dell’Ucraina o dell’Ucraina stessa.

E’, giorno dopo giorno, sempre più evidente la portata intercontinentale che ha assunto e, per questo, dovrebbe essere chiaro che quel popolo che è sotto le bombe e che si difende, lo fa materialmente contro un aggressore manifesto ma dovrà anche difendersi dai conquistatori del dopoguerra.

Quelli che piomberanno sul paese martoriato e devastato per ricostruirlo, per colonizzarlo con intromissioni economiche e finanziarie, per farne un nuovo premio produttivo per aver consentito la rivoluzione delle alleanze mondiali, dei riarmi dei singoli paesi, della riconversione bellica delle strutture produttive.

I successi militari russi di questi giorni in Donbass potrebbero, paradossalmente, se davvero gli obiettivi di Putin fossero quelli dichiarati, avvicinarci alla fine del conflitto. Ma una considerazione di questa natura presupporrebbe una buona fede da parte russa che, se anche vi fosse, sarebbe inficiata dal conclamato bellicismo occidentale, seppure espresso per procura…

I tempi della guerra, quindi, saranno molto lunghi e i tatticismi militari sono l’aspetto esteriormente tangibile di un cinico ricollocamento delle grandi potenze nella sfida aperta sul nuovo millennio da una sempre maggiore povertà sociale, naturale e anche morale.

Se gli imperialismi saranno funzionali non solo più al regime concorrenziale del capitalismo liberista, al farsi le guerre economiche per primeggiare ed avere di più, ma saranno costretti ad esserlo per un mero istinto di sopravvivenza dei popoli, le prossime generazioni si troveranno davanti ad un salto di qualità ulteriore dell’aggressività del potere.

MARCO SFERINI

27 maggio 2022

Foto di Evelyn Chong

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