Da Palazzo Chigi fino alla punta estrema del manganello

Le manganellate agli studenti pacifisti di Pisa, Firenze e delle altre città d’Italia in cui si sono tenuti cortei per chiedere il cessate il fuoco a Gaza, interrogano il...

Le manganellate agli studenti pacifisti di Pisa, Firenze e delle altre città d’Italia in cui si sono tenuti cortei per chiedere il cessate il fuoco a Gaza, interrogano il rapporto che abbiamo con la costruzione del comando entro la catena di comando stesso. Perché quando si dà un ordine, è evidente che quello stesso proviene da un superiore che lo ha avuto da un altro superiore che, alla fine, risponde ad un principio politico ultimo che risiede nell’attività di un governo.

Tocca all’esecutivo gestire la quotidianità dei rapporti tra istituzioni e popolo; tocca a Palazzo Chigi, quindi, organizzare le migliori condizioni possibili per cui siano garantiti i diritti tutelati dalla Costituzione entro il rispetto delle libertà democratiche, tanto del singolo quanto della collettività.

Il ricorso all’uso della forza dovrebbe essere limitato ai casi in cui la situazione degenera nel teppismo vandalico, nella snaturazione completa delle ragioni della libertà di riunione, di espressione del pensiero, di manifestazione pacifica.

Interrogarsi sul come si costruisca il comando che dà il via alla repressione violenta da parte delle forze dell’ordine contro duecento studenti disarmati, pacifici e intenzionati soltanto a raggiungere una piazza per protestare contro il genocidio in atto nella Striscia di Gaza, è esattamente fare questa operazione di metodo: cercare di capire come si arrivi a valutare pericoloso un folto gruppo di giovanissimi che reggono qualche bandiera e degli striscioni, che non hanno altra arma per farsi sentire se non la propria corale voce.

E’ del tutto evidente – o almeno dovrebbe esserlo – che una analisi di questa natura non può trascurare il clima politico e sociale che c’è in Italia oggi.

Questo presuppone l’accantonamento di qualunque tentazione generalizzatrice, per cui tutti i poliziotti sarebbero violenti e tutti i manifestanti pacifisti sarebbero altrettanto pacifici, non fosse altro per fare onore al loro epiteto. I condizionamenti istantanei che si producono nel momento in cui una manifestazione si muove per le vie di una città possono essere cento e altrettanti ancora. Ma le immagini parlano chiaro.

E per fortuna le abbiamo. Quelle immagini ci dicono che i ragazzi di Pisa sono stati imbottigliati in una via stretta e che quello spazio angusto ha esasperato gli animi nel momento in una camionetta della polizia con davanti gli agenti con scudi e manganelli alla mano hanno sbarrato la strada al piccolo corteo.

Un corteo che, da minuscolo che era è divenuto una enormità e che, oggi, insieme ad altri che sono stati oggetto di una medesima repressione violenta, fa vacillare persino la poltrona ministeriale su cui siede Piantedosi.

Il richiamo del Presidente della Repubblica al Ministro dell’Interno è un unicum nel suo genere: a memoria non salta in testa nessun caso in cui, fuori dalle prerogative costituzionali affidate al Capo dello Stato di rivolgere messaggi alle Camere, Mattarella e i suoi predecessori abbiano rilasciato delle note a margine per una correzione di rotta di un comportamento politico-gestionale delle manifestazioni di piazza.

Per rinvenire qualcosa di simile si deve portare indietro la cronologia della storia d’Italia ad almeno ventitré anni fa, ai tempi della macelleria messicana al G8 di Genova, ad una repressione sistematica e su vasta scala in cui i movimenti altermondialisti furono oggetto di una vera e propria vendetta di Stato nei confronti di chi osava parlare all’Europa e al mondo dello squilibrio diseguale in cui coloro che sedevano nei palazzi protetti dalla “zona rossa” avevano gettato il pianeta e miliardi e miliardi di esseri viventi.

La preoccupazione del Presidente Mattarella è un campanello di allarme che suona per uno Stato che viene, ogni giorno che passa, decreti dopo decreti (dai rave party a Cutro, tanto per fare alcuni esempi), leggi dopo leggi, il governo e la sua maggioranza tentano una scissione pianificata tra istituzioni e Costituzione, e tra questa l’origine della sovranità: la popolazione.

Irretita una buona parte di questa mediante promesse di integerrimità nell’affrontare la crisi economica, l’invasione dei migranti e la paventatissima sostituzione etnica, il clima creato in questo ultimo anno e mezzo inizia a manifestarsi ben oltre la percezione emotiva.

Le botte date agli studenti di Pisa, nella loro efferatezza, chiariscono che esiste un problema evidente tra il governo del Paese e il Paese stesso nel momento in cui questo dissente dalle politiche dell’esecutivo. Così come esiste un trattamento diverso delle proteste e delle manifestazioni.

Se ad Acca Larentia si riuniscono centinaia di neofascisti e nostalgici del regime di Mussolini per un “evento commemorativo“, si alzano le braccia salutando romanamente e si espongono simbologie dichiaratamente ispirate al razzismo, alla xenofobia e alla supremazia razziale, dai centri di comando di gestione dell’ordine pubblico e, soprattutto, della Legge con la elle maiuscola, non parte alcun ordine.

Se altrettante centinaia di ragazzi protestano perché ritengono la pace una priorità e chiedono al governo di impegnarsi su questo fronte nell’ambito del deserto di morte che è diventata la Striscia di Gaza, allora la reazione è la repressione messa in opera con una vera e propria sadica ferocia.

Il ghigno sardonico del poliziotto che alza il manganello come il primitivissimo scimmione kubrickiano, iconico simbolo dell’involuzione disumana nella sua drammatica evoluzione, è certamente un atteggiamento che va oltre qualunque carica di alleggerimento.

Lì c’è la soddisfazione di picchiare, di spaccare muscoli, ossa, teste, braccia, gambe. C’è la voglia di esprimere una brutalità che non può essere chiamata “ordine pubblico“. Duecento ragazzi, accompagnati anche dai loro insegnanti, erano dunque sinonimo di “disordine pubblico“?

Forse che alle grida degli studenti, che chiedevano di poter continuare il loro corteo, si risponde rompendogli il naso, i denti e aprendogli ferite sanguinanti sulla faccia e sulle spalle? Il Presidente della Repubblica ha fotografato con estrema sintesi il tutto: siamo davanti ad un fallimento.

Il Ministro delle Infrastrutture ritiene che, un po’ come per le sentenze della Magistratura, le parole del Capo dello Stato si leggono, si ascoltano, si recepiscono e non si commentano. E’ evidente: chi non le condivide si trincera dietro un tipicamente anglosassone “No comment“. Ma non si sfugge comunque alla chiarezza delle proprie opinioni anche se si tenta di celarle.

Una parte del governo non conviene con Mattarella sul fatto che là, in quella piccola, stretta via di Pisa, si sia enormemente sbagliato. La difesa aprioristica delle forze dell’ordine è davvero un favore che si fa a tutta la polizia di Stato? La Costituzione chiama tutte le istituzioni dello Stato ad uniformarsi al carattere democratico della Repubblica. Facciamo attenzione ai termini usati nella redazione della Carta fondamentale del 1948: lo Stato è sempre l’insieme dell’architettura gestionale della nazione. La Repubblica è il concetto che riunisce tanto la forma quanto la sostanza del Paese.

La Repubblica è anzitutto il popolo che si esprime, mediante il voto, come principio primo della sovranità. La democrazia, dunque, deve poter derivare da questa delega così importante e deve essere demandata agli organi istituzionali che la sussumono su sé stessi e vi si uniformano.

Se nella gente viene istillato il dubbio che sia proprio la questione democratica il problema, perché richiede costi, tempo, farraginosità parlamentari (create ad arte per poter dimostrare tutto questo), ecco che si creano i presupposti di una sfiducia che è anzitutto rassegnazione. Per cui il ruolo della cittadinanza attiva diventa sempre meno importante e, complice anche il necessario fattore di crisi economica che accompagna sempre queste regressioni antidemocratiche ed autoritarie di cui è sufficientemente ricca la storia del Novecento, si va verso la “semplificazione” del potere.

In realtà, procedere in questa direzione vuol dire abbandonare il controllo popolare sulla delega e sulla rappresentanza: una politica di governo che privilegia gli interessi privati e penalizza ogni aspetto della vita pubblica e della comunità, a cominciare dalla preservazione e dall’implementazione delle garanzie sociali e dei diritti civili ed umani, induce a pensare l’irriformabilità della politica stessa.

Ciò che un regime non democratico può a quel punto dare al popolo è la certezza che la stabilità sociale si fonda sullo scambio con la libertà personale e collettiva. Per governare e fare ciò che ci intende fare senza dover risponderne alla dialettica parlamentare e alle obiezioni di chi protesta, il prezzo da far pagare ai cittadini è la rinuncia alle prerogative fondamentali.

Ecco da dove prende sostanza l’accelerazione repressiva: dalla possibilità che tutto questo possa accadere puntando sulla mancata risposta popolare e di altre istituzioni. Un binomio che non si è ancora concretizzato: dopo il pestaggio degli studenti, Pisa ha reagito e sono scese in piazza diecimila cittadini per dimostrare che la forza dei manganelli non è l’ordine, né la Legge, né alcun diritto di fermare la libertà di manifestazione.

Il Presidente Mattarella ha messo il suo carico su tutto questo e si è schierato con la Costituzione, con la Repubblica, con la popolazione, con gli studenti.

Tutto questo senza creare fronti opposti, evitando le grossolane risposte della destra sull’intangibilità delle forze dell’ordine. Se è qualche poliziotto a trascendere, ad esacerbare sé stesso nella condotta da tenere in piazza, nell’interpretare troppo zelantemente degli ordini, si deve intervenire in merito. Ma non va dimenticato che esiste una catena di comando e che esistono precise responsabilità politiche.

Per cui, alla punta estrema di quel manganello agitato in aria e poi sceso sulle costole di qualche ragazzo pisano, non c’è soltanto la forza muscolare dell’agente che colpisce, ma c’è tutta la costruzione di una attitudine alla repressione che va demitizzata, depotenziata e neutralizzata nel nome dell’uniformità democratica della istituzioni repubblicane.

Se il poliziotto colpisce duramente, quasi compiacendosi di ciò che fa, è perché può farlo non soltanto in virtù di un comando, ma anzitutto perché intorno a lui c’è una ispirazione che lo conduce in quel senso e che è espressione del clima politico che chiama all’emergenza ogni volta che c’è un dissenso.

E, se si paventa un pericolo che non è tale, e proprio per questo è un pericolo al quadrato o addirittura al cubo, si ingenera una reazione di tolleranza di azioni repressive che, per fortuna, oggi non è ad un livello tale da demotivare la reazione democratica della popolazione, che scende in piazza per stare dalla parte del vero Stato: quello che non picchia gli studenti se protestano, ma che li deve invece sostenere per aiutarli nel loro cammino esistenziale.

Le colpe, dunque, sono di chi picchia, di chi ordina che si picchi, di chi fa di tutto perché chi manifesta abbia, proprio perché manifesta, già una punta di torto a prescindere, a priori. Chi dà fastidio deve essere messo a tacere. Chi rievoca il fascismo come un fasto nazionale del passato, una gloria storica del Paese, invece è tollerato: nel nome, si intende, della libertà di espressione.

Un doppiopesismo che un governo di estrema destra è naturale esprima, ma che contravviene all’uguaglianza di tutti i cittadini tanto davanti alla Legge quanto davanti al governo. Che non è sovrano di nulla, che non è nemmeno eletto dai cittadini, nonostante spesse volte in televisione lo si senta affermare con un disarmante candore.

Ad ogni azione repressiva dovrà corrispondere una più grande reazione in difesa della Repubblica, della democrazia, delle libertà sociali e civili, morali e culturali. Fino a che sarà così, il governo governerà, ma non sarà mai l’Italia intera.

MARCO SFERINI

27 febbraio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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