All’origine della crisi del governo Draghi…

Se giovedì prossimo, al Senato, sarà il capolinea temporale del governo Draghi, quello della “maggioranza di unità nazionale“, non si potrà dire altrettanto degli effetti delle misure che ha...
Mario Draghi

Se giovedì prossimo, al Senato, sarà il capolinea temporale del governo Draghi, quello della “maggioranza di unità nazionale“, non si potrà dire altrettanto degli effetti delle misure che ha preso in questi ultimi due anni e che, interessando un quantitativo di risorse mai visto prima per un esecutivo, si può stare certi che si protrarranno più a lungo nel tempo di quanto non possa immaginare una relazione del presidente dell’INPS sul miserevole stato dell’occupazione, del disagio sociale e della povertà strutturale che stanno dilagando spaventosamente nel Paese.

La maggioranza draghiana non entra in crisi soltanto per punti di principio, per scelte dirimenti in politica interna e, tanto meno, nel merito della politica estera. Le differenze sostanziali tra Cinquestelle e il resto della coalizione sulle tematiche che riguardano il lavoro, il salario minimo, i termovalorizzatori e le linee di condotta generale sulla tenuta sociale dei prossimi mesi, potrebbero essere le stesse (cambiando opportunamente l’ordine dei fattori) che intercorrono tra la Lega e il “campo largo” lettiano, oppure tra i calendiani e i Cinquestelle o, ancora, tra Forza Italia e Articolo 1.

Tutti ne hanno per tutti in una così complessa amalgama di differenze su singolarità che, comunque, spalmate sul terreno del liberismo da difendere e da applicare costantemente nell’opera di governo, evaporano come neve al sole davanti al richiamo al rigore pragmatico tipico del banchiere internazionale, di colui che riporta tutti al senso di responsabilità apparente verso il Paese e sostanziale nei confronti del mondo imprenditoriale, considerato l’unico perno attorno al quale far ruotare il motore produttivo italiano.

Questo governo non sarebbe mai dovuto nemmeno nascere; che entri in crisi, e che possa prefigurarsene una dipartita, non può che essere una buona notizia. Non funziona nemmeno più il gioco del moralismo economicista che vorrebbe imporre una ratio imperturbabile nel considerare Draghi una necessità inalienabile, una imprescindibilità inamovibile da Palazzo Chigi, stabilendo un primato etico del tecnicismo banchieristico sul ruolo tutto politico del Presidente del Consiglio.

La Costituzione è stata sovvertita già fin troppe volte nel nome delle esigenze contingenti, delle impellenti scadenze irrimandabili dettate dall’Europa di Bruxelles e Francoforte.

La minaccia del PNRR è stata posta sulle nostre teste per farci accettare ogni eccezionalità post-pandemica, nonostante la pandemia sia ancora in corso. Se davvero vi fosse stato, fin dall’inizio, un accordo completo tra le forze di maggioranza sulla destinazione dei fondi del grande piano europeo di salvataggio delle singole economie capitaliste nazionali nel contesto internazionale, allora le forze politiche oggi si dividerebbero nel pieno merito delle questioni contrapposte.

Invece, con l’avvicinarsi della scadenza elettorale per le elezioni politiche del 2023, vista la intrinseca debolezza della maggioranza creata da Draghi e Mattarella, il governo rischia la sua rovinosa caduta su una serie di veti incrociati che non gli permettono più di vivacchiare, nemmeno come sta facendo in questi mesi di grande calura estiva.

La crisi sociale che si apre è gravissima e gli effetti che si vedranno nei prossimi anni, con ampie anticipazioni purtroppo già nel presente, sono un po’ come le irreversibilità climatiche, come la rivolta della natura nei confronti di violenze liberiste portate avanti da decenni e decenni di sfruttamento delle risorse del pianeta.

Tradotto sul piano della politica antisociale dei governi che si sono avvicendati in questi ultimi lustri, la combinazione tra privato nazionale e finanziarizzazione economica internazionale, tra le dinamiche del capitalismo italiano e quelle della ristrutturazione europea dei mercati, oggi ci conduce al disastro nel mondo del lavoro e in quello della previdenza sociale.

I numeri dell’INPS parlano ferocemente chiaro: gli italiani che si trovano in uno stato di povertà assoluta sono quasi 6 milioni. I lavoratori si sono visti diminuire il potere di acquisto dei salari molto più rispetto alla media europea e quelli che vengono classificati come “lavoratori poveri” sono letteralmente raddoppiati negli ultimi quindici anni. Un occupato su tre percepisce un salario che, a mala pena, arriva ai 1.000 euro e – sottolinea sempre Tridico – chi oggi vive con queste paghe è destinato sicuramente ad essere domani un “pensionato povero“.

Il fallimento delle politiche di compromesso antisociale tra lavoro e impresa, tra esigenze dei salariati e tutela dei privilegi dei padroni, è sotto gli occhi di tutti, perché le diseguaglianze aumentano vertiginosamente nonostante la tanto sbandierata, salvifica iniezione europea di risorse che avrebbe dovuto tamponare il crollo dell’economia nazionale in un contesto di crisi endemica, le cui avvisaglie si erano avute tutte con la crisi dei mutui subprime nel 2008-2009.

Non deve sorprendere la sfacciataggine con cui le forze di governo ancora oggi difendono politiche di riforme che vanno esattamente nella stessa direzione di quelle fatte fino ad ora e che, come si può bene vedere dai dati sciorinati dall’INPS, hanno prodotto un danno per le generazioni attuali (e per quelle che ancora devono venire) che non si potrà risolvere nemmeno con il migliore degli esecutivi possibili nella prossima legislatura.

La costrizione ad invertire la rotta può venire soltanto da un sollevamento generale degli indigenti, dei lavoratori, degli studenti e dei pensionati che devono però poter contare su nuove forze politiche, su aggregazioni che mettano al centro del loro pensare ed agire politico la disuguglianza dei redditi da lavoro come elemento portante e veramente strutturale del cambiamento sociale, per permettere in questo modo il mutamento dell’intera economia nazionale.

Thomas Piketty scrive, nel suo monumentale lavoro “Il capitale nel XXI secolo” (Bompiani, terza ristampa 2021) che proprio le grandi differenze numeriche e valoriali tra i salari, pagati nei vari paesi alla grande varietà della forza-lavoro, sono la cartina di tornasole di un rapporto adeguato o inadeguato, a seconda dei casi, tra le competenze sviluppate e la tecnologia impiegata per la produzione.

Significa che le scelte del capitalismo italiano, ad esempio, unitamente alle politiche di protezione che ne vengono fuori dalle false promesse di benessere sociale e collettivo fatte da Palazzo Chigi, intervengono – almeno per quanto concerne gli investimenti nel capitale costante (macchinari, infrastrutture, garanzie, protezioni e incolumità dei lavoratori) – a determinare la qualità dell’intera filiera produttiva.

Piketty sottolinea come la preparazione adeguata della forza-lavoro, quindi quelle competenze che interagiscono con il tasso di sviluppo tecnologico impiegato – che significa investimenti privati (e pubblici nel privato) in campo aziendale – sia uno dei cardini per valutare proprio la crescita economica complessiva. Senza una tutela del lavoratore adeguata, senza la garanzia di una manodopera qualificata, senza quindi una politica di incentivazione sulla sicurezza dentro e fuori le fabbriche, la “grandezza mutabile” del salario è destinata a scemare.

Le politiche liberiste di Monti, Renzi, Letta, in gran parte anche di Conte, e senza ombra di dubbio di Draghi, hanno invece spinto l’acceleratore sulla compressione tanto dei diritti materiali del mondo del lavoro quanto su quelli più squisitamente sociali e morali.

L’operaio, il precario, il contrattualizzato a chiamata non vivono in sicurezza le loro ore di lavoro negli ambienti in cui devono prestare la loro opera. E, proprio come avveniva prima dell’inizio della fase liberista, nei decenni successivi al secondo dopoguerra, appena mettono piedi fuori dagli impianti produttivi o finiscono il loro lavoro in bicicletta, li attende nel resto della giornata una costante diminuzione del potere di acquisto di quel salario che è, ormai da tanto, troppo tempo, al palo rispetto al resto dell’Europa.

Cito ancora Piketty, la cui analisi mi sembra cogliere perfettamente nel segno: «A lungo termine, il modo migliore per ridurre le diseguaglianze determinate dal lavoro, e anche per aumentare la produttività media della manodopera e lo sviluppo globale dell’economia, è senza dubbio quello di investire nella formazione. Se in un secolo il potere di acquisto dei salari si è moltiplicato per cinque, è perché il progresso delle competenze e i mutamenti tecnologici hanno contribuito a moltiplicare per cinque il prodotto del lavoratore salariato» [pp. 469] e, aggiungiamo noi, a creare una esplosione profittuale che ha dato seguito alla grande concentrazione delle ricchezze in mano ad un sempre minore nucleo di padroni e speculatori, arrivando alle crisi finanziarie del biennio 2008-2009.

Ora, siccome un banchiere come Draghi queste analisi le dovrebbe conoscere a memoria, è del tutto evidente che la pretestuosità delle belle argomentazioni sulla tenuta dell’economia nazionale in un momento di crisi internazionale è già di per sé un programma di governo.

Significa oscurare le vere motivazioni dell’allargamento della forbice delle diseguaglianze, tentare di far sostenere i costi della crisi ai ceti più deboli del Paese, quelli che sono scivolati nella povertà irreversibile e quelli che ancora hanno un piede fuori da questo baratro, per permettere ai capitalisti italiani di avere ancora una possibilità di essere sufficientemente concorrenziali col resto d’Europa e del pianeta, nel bel mezzo di una guerra di cui ormai si parla ogni giorno con sempre meno attenzione e solo quando le minacce di chiusura dei rubinetti del gas ci riguardano direttamente.

La crisi politica del governo non è, purtroppo, una crisi che nasce da una rivolta delle forze di maggioranza contro le politiche antisociali dell’esecutivo. E’ una crisi, per larghi tratti, altamente opportunistica, che mira al salvataggio dei consensi rimasti a forze in evidentissima crisi (Lega e Cinquestelle) e che stanno solamente cercando una ciambella di salvataggio per rimanere negli emicicli parlamentari ed avere ancora un ruolo nella prossima legislatura.

La miseria della politica italiana è pari alla miseria antisociale prodotta dalle classi dirigenti che ne controllano l’economia. Non si può sperare che dalle piccole pattuglie progressiste, che si dicono pure voci critiche in seno alla maggioranza di governo, venga fuori chissà quale proposta politica di riforma che possa essere approvata da uno schieramento completamente succube dell’impianto liberista dettato da Bruxelles.

L’incapacità del riformismo di sinistra di essere riformatore è un fallimento ormai accertato. Tanto quanto quello della diaspora della sinistra di alternativa. Non c’è nulla di consolante nell’avere ragione a vicenda, nel rimproverarsi di aver tutti e due commesso degli errori grossi e grossolani, nell’aver esercitato una coazione a ripetere gli sbagli e a incistarsi su autoreferenzialismi uguali e contrari che hanno, al momento, impedito lo scompaginamento degli equilibri politici rappresentati in Parlamento e le dinamiche sociali che hanno cambiato radicalmente la vita del Paese e i rapporti di classe.

Draghi, quando incontrerà i sindacati, potrà proporre degli aggiustamenti alle cifre che ha già portato al voto della Camera dei Deputati. Potrà farlo, pur «avendo le tasche piene», per cercare di far rientrare il dissenso pentastellato, ma al massimo metterà una toppa ad un buco, non ricomporrà l’iniziale spirito del “tutti insieme appassionatamente” nel nome del “bene del Paese”. L’incanto si è spezzato, la magia ha perso i suoi effetti di onbubilamento delle menti e la fiducia nelle sue capacità taumaturgiche è, giorno dopo giorno, venuta sempre meno.

La gente, che è tutt’altro che sprovveduta, ha letto nella sua politica linee perfettamente equivalenti a quelle dei precedenti governi e non ha distinto un cambio di passo che potesse far sperare ad un recupero del potere di acquisto dei salari, ad una riformulazione delle garanzie sul lavoro, ad una fine della parcellizzazione contrattuale, ad una rivisitazione dei conti sociali proprio grazie a quelle risorse del PNRR che, invece, sono finite nelle tasche degli imprenditori.

Nulla di tutto questo è stato fatto perché non poteva essere fatto da un governo simile. All’Italia manca una sinistra progressista, una sinistra che si inserisca nel dibattito sociale, politico e civile del Paese e che rimetta in moto le coscienze e le consapevolezze sul miserevole stato di decine di milioni di cittadini, di lavoratori, di precari e disoccupati. Manca un’azione sindacale decisa in questo senso. Manca un rinnovamento culturale che sia veicolato da una informazione alternativa. Manca quel “Paese nel Paese” con cui Pasolini descriveva l’organizzazione politica del proletariato dei primi decenni della Repubblica democratica.

La crisi del governo Draghi, la sua eventuale caduta, non può essere festeggiata come una conquista delle forze sociali, sindacali e politiche. Nemmeno come la conseguenza di una opposizione di massa alle controriforme dell’esecutivo. Se ciò avverrà, sarà frutto, purtroppo, delle pruriginosità elettorali di parti della maggioranza, per un mero calcolo opportunistico e non per una vera piattaforma programmatica tesa a ristabilire un po’ di giustizia sociale nel Paese.

Ecco quello che manca all’Italia: la consapevolezza del disagio, l’organizzazione della disperazione, la voglia di rimettersi in gioco, superando ogni complesso di inferiorità, pensando anzitutto che noi siamo molti più di loro e che senza precari, disoccupati, lavoratori, pensionati e studenti si ferma davvero il Paese intero e, questa volta, per un “lockdown” diverso da quello pandemico.

Per un grande sciopero generale contro la stagnazione economica, contro un costo della vita che sale vertiginosamente, contro ogni governo che voglia scaricare il costo della crisi sui salari e sulle pensioni e non, invece, farla pagare finalmente a chi l’ha prodotta: gli imprenditori, le privatizzazioni, le politiche liberiste a tutela dei grandi capitali.

La questione salariale deve essere al centro della proposta della sinistra di alternativa moderna. Deve essere la prima proposta di una nuova politica di classe, di una nuova lotta contro il capitale.

MARCO SFERINI

12 luglio 2022

foto: screenshot

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