La scelta di Draghi e le contraddizioni liberiste del PNRR

Il disegno di legge “concorrenza” è un po’ la cattiva coscienza della maggioranza draghiana. Sta facendo venire fuori tutta una serie di contraddizioni, a dire il vero già ben...

Il disegno di legge “concorrenza” è un po’ la cattiva coscienza della maggioranza draghiana. Sta facendo venire fuori tutta una serie di contraddizioni, a dire il vero già ben note fin dall’insediamento dell’esecutivo guidato dall’ex banchiere europeo, che le forze politiche non sono in grado di superare se non con il prevalere di una tendenza economico-finanziaria rispetto ad un’altra. Perché di questo si tratta: dell’interpretazione che le varie scuole di pensiero danno alla formazione, alla conservazione e alla spendibilità di quella grande croce e delizia liberista che è il debito.

Pregio, qualità, virtù o difetto, dannazione e stigma per i governi che devono gestire la fase di applicazione dei piani di redistribuzione delle risorse europee nei rispettivi ambiti nazionali? Molto dipende dalla linea politica di questi moderni comitati di affari del liberissimo mercato capitalista; ma molto dipende anche dalla strutturazione dell’economia di un paese, della sua rappresentanza associativa e dei rapporti che viene ad avere con il diffuso disagio sociale che ruota attorno al manipolo di benestanti che detengono la stragrande maggioranza delle ricchezze.

Il tema del debito pubblico, se lo si vuole veramente affrontare con serietà, senza pregiudizi e inganni pseudo-ideologici, deve necessariamente riguardare il privato e tutti i condizionamenti che esercita in quella società che è prevalentemente la sua; quella a cui tutto si uniforma e obbedisce.

Le leggi propriamente dette, il “diritto“, sono scritte su princìpi generali e astratti, hanno bisogno di norme attuative e, sovente, proprio queste declinano in senso protettivo le disposizioni che hanno valore universale ma che, in sostanza, finiscono col tutelare solamente una parte della società e, quindi, della popolazione.

Una parte esigua, ristrettissima: il mondo della grande impresa, dell’alta finanza, quello attorno a cui ruotano davvero i grandissimi capitali, gli stipendi d’oro, i dividendi delle multinazionali che inglobano sempre più aziende minori, che convertono le produzioni senza troppi problemi internazionali e che hanno rapporti ottimi un po’ con tutti i padroni dei tanti vapori statali: dai democratici occidentali agli autocrati orientali.

Le beghe in seno alla maggioranza draghiana riguardano, in sintesi, proprio il debito, perché sulla possibilità di farne ancora o su quella di limitarlo e modificare certi capitoli di spesa, si giocano i destini politici sia delle forze politiche sia del governo stesso e, quindi, in ultima istanza ci si gioca il posto di rappresentanza degli interessi della classe padronale e del simbiotico legame con le dinamiche finanziarie continentali e d’Oltreoceano.

I numeri contano, eccome, ma per certi versi valgono anche questioni di principio da cui far discendere delle linee di adeguamento della politica alle pretese del mercato. Facciamo un esempio: la vicenda della direttiva Bolkestein inerente le liberalizzazioni delle concessioni balneari sta facendo ballare sul vulcano migliaia e migliaia di operatori del settore che hanno assunto una comprensibile posizione conservativa (dal punto di vista meramente materialista) e conservatrice (dal punto di vista invece politico).

L’applausometro delle ragioni del libero mercato non sempre ottiene il massimo punteggio che, presuntuosamente, si vorrebbe per forza attribuirgli sulla scia dell’autorevolezza manifesta di certi leader, capi di governo, di Stato o di imprenditori di gran successo. La concorrenza è e rimane un fattore ineludibile nel mercato. E siccome spazio non ce n’è per tutti, ogni tanto anche Draghi deve sgomitare tra le forze politiche per farsi e fare largo alla tutele di quei privilegi di posizione che nessuno, in particolar modo le grandi aziende, le grandi fette di economia produttiva, vogliono mollare.

La direttiva Bolkestein prevede che abbia a cessare tutta una concorrenzialità interna all’Unione europa per rendere apparentemente efficace il diritto di tutti ad accedere a determinati servizi, ad occupare settori di impresa e di lavoro senza più tante discriminazioni fondate sulle differenze nazionali. Apparentemente.

In realtà si tratta di una normativa volta a riconsiderare i vecchi assetti di potere economico per scrivere una nuova pagina liberista nel Vecchio continente ridefinendo i confini, gli spazi e le competenze socio-economiche dei privati.

I balneari italiani sono in fibrillazione perché, anche se la questione va avanti da parecchi anni, a breve si potrebbe arrivare al redde rationem in merito al rinnovo o meno delle concessioni che hanno loro garantito fino ad oggi di tramandarsi di padre in figlio le pertinenze demaniali e marittime per i loro stabilimenti. La direttiva è uno strumento “comunitario” e quindi ha, giuridicamente parlando, un carattere sovranazionale e si impone sulle singole legislazioni statali: non la si può eludere e ci si deve adeguare.

Questo è uno di quei casi in cui si esprime quella sovranità europea che fa dire ad alcuni eminenti studiosi del diritto internazionale che la UE è veramente qualcosa di molto particolare e singolare nel panorama globale: la sua legislazione limitata la fa apparire simile ad uno Stato confederativo (sul modello americano) ma, in realtà, è appena appena di più di una organizzazione sovranazionale che dirime le controversie tra i suoi membri e fa fatica a far rispettare le regole comuni.

Ma tant’è, per risolvere questioni come quelle dei balneari italiani, bisogna fare largo a nuove iniziative di impresa, garantendo che nessun lavoratore perderà il suo posto, che nessuna famiglia resterà senza un futuro. Il tema del debito, quindi, ritorna prepotentemente sulla scena del dibattito di maggioranza, perché, a seconda della linea politica prevalente, il destino dei balneare sarà quello di poter ancora vedersi prorogate le licenze oppure di dover concorrere a nuove gare di appalto per l’anno 2023.

Sembra che Draghi sia intenzionato a far votare il disegno di legge “concorrenza” entro il 31 maggio, sacrificando alle norme più generali ed economicamente impattanti (per numero di miliardi di euro…) tutta una serie di correttivi, pure posti dal suo governo e da lui stesso, che avrebbero – ad esempio – messo in sicurezza i privilegi del comparto balneare, escludendo però così proprio la logica di mercato nel merito, attuando una linea conservativa che avrebbe soddisfatto, sostanzialmente, l’asse del centrodestra a trazione sovranista che da sempre conduce una battaglia in difesa dei perpetuatori delle concessioni balneari.

Proprio qui sta tutta, ma proprio tutta quella contraddizione del moderno liberismo che si richiama da un lato all’intervento dello Stato per mitigare gli effetti delle crisi economiche e di settore e, dall’altro, pretende di espandere le potenzialità del mercato a tutto tondo. La teoria economica del capitalismo in espansione, dagli anni ’70 a questa parte, stabiliva che si dovesse fare a meno dell’intervento statale per dare una regolamentazione ai sobbalzi del regime delle merci e del profitto: meno Stato voleva dire soprattutto “meno governo“.

Era il pallino di Ronald Reagan. Lo andava ripetendo spesso nei suoi comizi: «Il governo non è la soluzione. Il governo è il problema». Detto da un uomo di governo poteva anche sembrare parossistico, ed invece era la quintessenza della teorizzazione del modello liberista che muoveva i suoi passi decisivi alla conquista globale del mondo occidentale, mettendo piedi ben saldi in altri continente con guerre che spuntavano in ogni dove.

Il debito era l’altra contraddizione, meno tecnico-politica, più economico-finanziaria: ma entrambi questi temi hanno assillato – come bene ricorda David Harvey nella sua “Breve storia del neoliberismo” – i governi di mezzo mondo, perché sono stati costretti a fare i conti tra la gestione dei rapporti di mercato direttamente con i suoi più opulenti sostenitori e finanziatori, mentre le masse si impoverivano, i salari si comprimevano e le aspettative di una espansione in questo senso venivano progressivamente meno.

Non tutte queste contraddizioni sono all’ordine del giorno delle commissioni senatoriali che devono portare all’approvazione della nostra Camera Alta, ma non si può far finta di niente e credere che i contrasti nella maggioranza di governo siano dovuti esclusivamente a scaramucce di tipo politico, per fini meramente elettoralistici. Anche, certamente. Ma non solo.

L’impronta profonda del neoliberismo ogni tanto perfora il terreno su cui si regge e, pur avanzando inesorabilmente, cammina con fatica. Qualcuno ogni tanto vi inciampa, vi cade dentro e ne resta prigioniero. Qualcun’altro sceglie di camminarvi accanto e, al contempo, sostenere che lo fa per il bene di tutti.

Il risultato è che il governo deve scegliere se adottare la linea della conservazione, che tutela nell’immediato categorie medio-grandi disattendendo gli ordini di Bruxelles vincolati alle enormi risorse del PNRR, oppure se sacrificare, diciamo così…, degli interessi particolari del mondo imprenditoriale, interessi visti come troppo settorialmente “di casta“, per favorire ancora una volta la vastità degli investimenti della grande industria e dei suoi rapporti internazionali dentro e fuori la UE.

In ogni caso, non ne verrà fuori nulla di buono per le decine di milioni di salariati e pensionati che sono toccati da queste politiche liberiste nel momento in cui vedono aumentare l’inflazione, comprimersi i salari, destrutturarsi quel potere del lavoro che il sindacato può difendere – se decide di farlo – contro tutto e tutti.

Non ne verrà nulla di buono nemmeno per chi vuole andare al mare in una spiaggia, appunto, “privata“: privata del suo essere bene pubblico e comune, di essere fruibile oltre il mercato, oltre l’aziendalizzazione del territorio, la sottomissione e sudditanza del patrimonio naturale alla logica dell’impresa, seppure familiare.

La lotta per la ripubblicizzazione di tutto il demanio marittimo dovrebbe essere riportata all’ordine del giorno dalla sinistra (quindi non dal PD) e anche dal sindacato, dalle associazioni ambientaliste. Perché le lotte si tengono fra loro e fra loro si sostengono e implementano. Si potrebbero creare molti posti di lavoro in spiagge completamente pubbliche, producenti introiti per i comuni e non per una consorteria familistica che si tramanda di padre in figlio il diritto di successione su pezzi di spiaggia destinati a chi può permettersi di pagare per divertirsi d’estate.

Se la scelta politica e sindacale, invece, è quella della compatibilità, non lo sarà per aiutare il meno forte tra i forti e potenti, ma perché proprio i rapporti di forza tra le classi non emergono con sufficiente coscienza, con consapevolezza dei diritti di una grandissima maggioranza di persone che invece subiscono i diktat ora dei più ora dei meno rigidi assertori della libertà di impresa.

Libertà che non è altro se non una parola usata da chi continua ad accumulare ricchezze a tutto scapito delle già misere tasche dei giovani precari, dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti, dei pensionati e di quella rete di servizi a cui lo Stato ha smesso di guardare per andare invece a tutelare il profitto e i privilegi dei padroni.

E’ il mondo delle imprese. Letteralmente.

MARCO SFERINI

24 maggio 2022

foto: screenshot

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