La morale nella guerra e la guerra della morale

Che cos’è il “male“? Una rivista, ricorderà qualcuno che è vissuto politicamente a cavallo degli anni ’70 e ’80; un concetto, una idea, una trasposizione in un termine razionale...

Che cos’è il “male“? Una rivista, ricorderà qualcuno che è vissuto politicamente a cavallo degli anni ’70 e ’80; un concetto, una idea, una trasposizione in un termine razionale di qualcosa che, spesso, ci appare al di là della ragione, del concepibile cerebralmente perché ripugnante moralmente. Altri potranno dire che il male è una idea innata, quindi una “assenza di bene“, qualcosa che viene a mancare e si sostituisce con il vuoto che ne consegue: ed il vuoto, si sa, ce lo ha insegnato Anna Harendt, è il riempimento della più assoluta banalità che prende la forma che le vuoi dare. Senza troppo sforzo.

Per questo il male è più seducente del “bene“, perché non ha proporzioni, non ha dimensioni, non ha confini, è parte di noi in una alternanza un po’ taoistica tra dicotomici colori che non sono mai completamente uniformi e che, come la notte col giorno, contengono sempre l’astro della sera nel diurno e viceversa.

Definire “male” e “bene” riporta necessariamente ad un piano altamente soggettivistico che, tuttavia, non può prescindere completamente da una valutazione di massima accettata, da convenzioni stratificatesi nei secoli e nei millenni che sono venute costituendo la morale condivisa, il “contratto sociale” su cui una nazione vive e progredisce (o almeno dovrebbe…). Kantianamente parlando – si intende – possiamo anche arrivare a proclamare tanto il bene universale quanto la pace universale. Ma non usciamo dal cortocircuito tra pensato e praticato se non ci rendiamo conto del fatto che sono i rapporti economici, le relazioni pratiche a determinare quell’ “essere sociale” che noi siamo.

Un discorso che ci porterebbe lontano dal tema che intendiamo trattare qui, ossia: può il male non rendersi conto di essere tale e riuscire a illudere milioni e milioni di individui? Sono due domande separabili. E’ anzi auspicabile che si provi a ragionarne separatamente, visto che la prima è una specie di autoanalisi, di spicciola psicologia introspettiva per capire se si “vede” ciò che si è o si diventa, mentre l’altra è il suggerimento per una riflessione urbi et orbi, coinvolgente e sconvolgente al tempo stesso.

Durante un dibattito tenutosi al Salone del Libro di Torino, mentre Elio Germano e Pif partecipavano alla presentazione dell’ultimo libro di Gino Strada, uscito dopo la sua scomparsa, si è ovviamente parlato delle guerre e, nello specifico, di quella in Ucraina. Siccome i riferimenti storici, i parallelismi tra l’ieri e l’oggi sono diventati di gran moda e sono inflazionatamente sprecati, perché oscenamente usati e abusati per coprire le banalità di certi discorsi tele-radio-internettiani, ad un certo punto si è parlato di Adolf Hitler che è ciò che di umano è arrivato più vicino alla quintessenza concettuale di “male“.

I parallelismi tra il Führer e Putin sono all’ordine del giorno e le oscillazioni distorsive della storia e dell’attualità anche. E’ facile presentare un conflitto bellico come ascrivibile ad un unica motivazione e, per di più, individuabile in un unico individuo. Fiumi di letteratura storica del dopoguerra hanno, dal 1946 in avanti, analizzato le colpe singole e quelle collettive, le responsabilità dei dittatori e quelle dei popoli che li hanno applauditi spontaneamente o che li hanno dovuti applaudire sotto la minaccia della prigione o della morte.

Il tema riguarda la “volontà” e i suoi spazi di agibilità dentro un contesto di libertà che si restringe progressivamente e che quindi costringe e non permette, impone e non fa scegliere. Il singolo vive la contraddizione di poter esercitare una influenza sulle masse se ha un “potere carismatico” (che Weber riconosceva ad Hitler), mentre subisce la volontà della maggioranza che, a sua volta, al suo interno, non è sempre coesa. Ma il potere, il vero dramma dei popoli, è tale perché un complesso insieme di fattori lo rendono tale e lo riconoscono in quanto tale: dalla pseudo-volontà del singolo individuo alla stratificazione dei consensi che aumenta nell’attimo in cui “differenziarsi” non è etico oppure non è conveniente.

I fattori che giocano alla composizione subdola delle fondamenta di una volontà emergente sulle altre sono molti: per prima la struttura economica, i rapporti di forza tra le classi. L’arma del ricatto sociale è un potente persuasore delle coscienze anche più rigorose nel cercare di mantenersi autonome e indipendenti dalla marea accondiscendente. E poi si intersecano elementi di tradizione familiare, di semplice etica civile, di convenzioni acquisite e non superabili se si è da soli a combattere contro questi giganti dei propri tempi.

Ma quando è che un Hitler si rende conto di essere il male? E soprattutto se ne rende conto? Elio Germano battibecca con Pif su questo, perché mette sul piatto della discussione uno spunto tanto interessante quanto provocatorio, ma altamente evocativo di tutta una serie di ragionamenti che devono essere sviluppati. Si domanda l’attore che ha impersonato Leopardi se Hitler stesso pensasse di essere “il male” per antonomasia. E certo che no!, si risponde. Facile indignarsi davanti ad una autoanalisi di questa natura, ma Germano ha ragione: nessuno di noi, coscientemente, ammetterebbe mai di essere la quinta essenza del male, per il semplice motivo che, dal proprio punto di vista, ognuno è persuaso di agire per il proprio e l’altrui bene, perseguendo una idea giusta e corretta di società e di avvenire.

Gli altri possono giudicare, perché osservano dall’esterno, perché stabiliscono i parametri con cui incasellare le persone di un dato tempo. Ma nessuno è così autocosciente da ritenersi tanto malvagio e, soprattutto, se fine a sé stesso. Se avessimo domandato ad Himmler quali azioni immorali avesse compiuto nel corso della sua vita politica, ci avrebbe risposto che quello che noi consideravamo “male” per lui era “bene” e quindi giusto, corretto, moralmente accettabile. Probabilmente avrebbe anche elogiato la funzionalità dei campi di sterminio, la regolarità dei trasporti, la ragionieristica precisione di Heichmann e la grande capacità di pianificazione dell’Olocausto illustrata a Wannsee da Heydrich, il “boia di Praga“.

Elio Germano ha suscitato la reazione moralistica di Pif che si è detto indignato per queste parole. Parole che non fanno sconti alle ipocrisie con cui si finge troppo spesso di cavarsela nei giudizi sulla guerra sposando una delle parti in causa, riconoscendosi in essa adoperando grandi paroloni che pretendono di richiamarsi ad un pragmatismo saggio e compiuto, lasciando le analisi ai pacifisti che, in realtà, sarebbero degli stupidi “pacifinti“.

Perché se, oltre a condannare la guerra ti metti pure a condannare le parti in causa che la fanno, allora vuol dire che, tutto sommato, un po’ dalla parte del nostro nemico, tu, pacifista, stai… Sono i necessari paradossi creati da chi vuole intorbidare le acque già molto stagnanti di pregiudizi e archetipi che galoppano veloci nelle praterie del nulla cosmico. Discutere della guerra ed osservarla da tutti i punti di vista, non vuol dire ammetterne uno di questi come valido e imprescindibile.

Il diritto alle opinioni deve essere garantito, ma deve essere anche tutelato il diritto all’approfondimento, alla conoscenza dei fatti e non soltanto il loro introitamento mediante la grande, diffusa, onnipresente e onnipotente massmediologia moderna. Se ci domandiamo oggi, al pari di Elio Germano, se Hitler avesse contezza dei suoi crimini contro l’umanità, diventiamo hitleriani o sostenitori del neonazismo? E’ mai possibile accettare ancora questa riduzione anticritica della coscienza, del pensiero e della cultura a metodo di giudizio comune, ad etica del ragionamento e del metodo storico o anche soltanto del dibattito pubblico, delle cosiddette “chiacchiere da bar“?

Se ad ogni obiezioni critica si risponde con l’indignazione (anti)etica della morale di guerra, dello schierarsi necessariamente per partito preso, per autoctonia bellica, visto che si sta, qui, nell’Occidente che fa la guerra per procura, si impoverisce il dibattito del Salone del Libro. L’osservazione di Germano può anche essere vissuta come una provocazione, ma non lo è. Rimane una domanda legittima perché ci induce ad approfondire il tema della coscienza di ognuno di noi nel tempo in cui viviamo e, maggiormente, della coscienza degli uomini di governo e di Stato verso sé stessi e verso i popoli.

Hitler sapeva di mandare a morire milioni di giovani sui fronti aperti dalla Germania contro i paesi cui non aveva mai dichiarato guerra. Ma tutto ciò non rappresentava per lui un dilemma di natura etica, perché il soldato tedesco quello doveva fare: fondare una nuova società di eletti, aprire il cammino della razza superiore e conquistarle tutti i territori adatti al suo progresso mondiale. Dentro questa megalomania totalitaria c’è l’Adolf Hitler del primo dopoguerra novecentesco e c’è quello del bunker sotto alla Cancelleria del Reich, privo di qualunque contatto con la realtà, preda delle sue ossessioni e della sconfitta irreversibile.

Dunque, in merito alla capacità di percepirsi come “il male“, la risposta non può che essere: no, Hitler non ha mai pensato di esserlo. Lui era la “guida” di un popolo addomesticato da una risposta violenta alla crisi economica e alla povertà crescente, sedotto dal niente, dalla più grande banalità possibile con promesse di grandeur germanica che guardava indietro nel tempo fino ai tempi di Arminio e delle legioni romane sconfitte a Teutoburgo.

In quanto all’illusione preda di milioni e milioni di persone, ci siamo in parte già risposti nelle righe appena scritte: la molteplicità di una serie di eterogenesi dei fini, sommata ad un’altrettanto ineluttabile contingenza di condizioni, produce la “tempesta perfetta” a volte e genera disastri orrorifici su scala planetaria. Il Nazionalsocialismo è stato uno di questi e, proprio per questo motivo, va costantemente indagato, studiato e approfondito. Come ha fatto Elio Germano che, senza volerlo, da una semplice considerazione ha scatenato una utilissima reazione.

La polemica che ne segue, come se ne evince, non cade nel vuoto e serve a puntualizzare e a dubitare delle tante, troppe certezze moralistiche che abbiamo su quello che ci capita intorno…

MARCO SFERINI

21 maggio 2022

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