Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi è arrivato ieri a Trieste per commemorare la Shoah, proprio là sulla targa che in piazza Unità d’Italia ricorda quel 18 settembre 1938 quando Mussolini tuonò contro i nemici del fascismo e della razza dal balcone del palazzo del Comune annunciando la promulgazione delle leggi razziali.

In modo spietato ed esplicito contro gli ebrei stavolta, dopo che da anni la riscrittura della città in chiave italianissima ne aveva cambiato il volto, il nome delle strade e delle persone e la violenza antislava si era nutrita di deportazioni, processi e fucilazioni.

Ebrei stupiti e increduli: anzi, nella città dei commerci e degli affari, seppur senza i fasti degli anni asburgici, avevano badato a sopravvivere al meglio, a tenere strette quelle libertà che avevano fatto crescere a Trieste, nei secoli, una comunità ebraica di migliaia di persone.

Trieste attrattiva per gli ebrei che avevano raggiunto quel porto sicuro sempre più numerosi da tutta Europa grazie alle patenti di tolleranza fino alla piena equiparazione dei diritti nel 1867. A fine ‘800 la realtà ebraica contava quattro sinagoghe, le scuole di vario grado, l’ospizio per gli anziani, l’ospedale.

Ebrei tedeschi, dell’Est europeo, del Baltico, nelle banche nelle assicurazioni nel commercio nell’imprenditoria, ebrei corfioti nel commercio degli agrumi e delle spezie, ebrei italiani che diventeranno maggioranza: una bella fetta della ricca borghesia cittadina, parte non secondaria del potere economico e politico.

Ancora oggi l’ombroso cimitero, il museo «Carlo e Vera Wagner», la nuova sinagoga che, dal 1912, è tra le più grandi d’Europa e dove, a testimonianza del centenario incrocio di provenienze e culture, liturgie e riti ashkenaziti si mescolano a quelli sefarditi.

Trieste Schàar Zion, porta di Sion, perché dal suo porto, sulle navi del Lloyd triestino, dal 1921 riusciranno a lasciare l’Europa 200.000 ebrei in fuga dai pogrom. Verso la Palestina britannica, verso l’America e perfino, in 15.000, verso Shanghai, grazie a una rete organizzativa straordinaria che aveva il suo perno nel Misrad Ha Sochnut Ha Yehudit, il Comitato di assistenza agli ebrei.

Massoni, irredentisti, fascisti anche, determinanti ai vertici della Comunità ma, di contro, luminose figure dell’antifascismo come Colorni, Pincherle, Weiss. Anni difficilissimi per quelle migliaia che cercavano solo di continuare a vivere.

È nella città più libera e multiculturale d’Italia che vengono annunciate le leggi razziali, saltano diritti e proprietà, si decapitano e svuotano importanti realtà sociali ed economiche (le Assicurazioni Generali e la Ras, per esempio, pur nate da ebrei). Sono centinaia gli ebrei che cercano rifugio altrove, dove possono, ma non sono pochi quelli che restano e qualche pezzo di borghesia agiata collabora con il regime.

Le navi del Lloyd triestino continuano a salpare e a raggiungere la Palestina ma la febbre antisemita sale: devastata la sinagoga, bruciata la biblioteca, assaltati i negozi e, dopo l’8 settembre che vede Trieste diventare parte del Terzo Reich, si arriva alla «soluzione finale» nazista.

Il 9 ottobre 1943, giorno del Kippur, la prima retata e da lì si continua cercando l’ebreo casa per casa, deportando verso Auschwitz-Birkenau anche gli anziani e i malati dell’ospizio. Qualcuno viene ucciso in Risiera, la maggioranza parte verso i campi di concentramento e sono il 10% degli ebrei italiani: 710 quelli che partono sui treni blindati, 19 quelli che ritornano.

Dopo la Liberazione, la comunità ebraica di Trieste è ridotta all’ombra di se stessa ma in qualche modo si riforma nella sua anima plurima e non scevra di contraddizioni, ridotta mano a mano da un forte calo demografico e dall’allontanarsi delle famiglie multireligiose che si moltiplicano.

Il ministro Piantedosi, ex prefetto in quota Lega, dunque ha ricordato a Trieste l’Olocausto. Presenti i rappresentanti delle istituzioni locali, il presidente della Comunità ebraica di Trieste Salonichio e la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni in una giornata che parte da Piazza Unità ed entra poi nel Museo ebraico.

La Comunità ebraica di Trieste, quei seicento iscritti attuali, segue marginalmente e non sono poche le polemiche. Piantedosi ha insistito sulla necessità di tenere «l’antisemitismo lontano dalla vita civile» perché ha continuato «i casi registrati, anche di denuncia dell’attività delle forze di polizia» sono un segnale che l’antisemitismo in Italia «esiste, in maniera più o meno consapevole da chi lo pone in essere, comunque come fenomeno che alimenta in qualche modo l’odio, quasi una sorta di propensione naturale verso l’odio da parte di alcuni».

«Trieste – ha ricordato – è una città simbolo della memoria, è il luogo in cui fu annunciato l’orrore delle leggi razziali e dove fu fatta la prima deportazione di ebrei italiani ad Auschwitz… La memoria si deve trasformare in una diffusione di valori della collettività. Ci deve essere un tessuto culturale e istituzionale a presidio del fatto che questo non succeda mai più, che la discriminazione abbia sempre meno terreno fertile».

In tantissimi hanno seguito, pochi giorni prima, la posa di nuove quindici pietre d’inciampo, le testimonianze dei parenti, il coro dei bambini delle scuole ebraiche, le parole preoccupate del Rabbino sul passato e sul presente.

Pietre d’inciampo – altre 29 saranno posate nei prossimi giorni anche in Carso e nei paesini del circondario – raggi di luce dorata sull’asfalto dei marciapiedi, per dare un nome indelebile ai deportati ebrei ma, stavolta, anche alla giovane antifascista Darinka Pišcanc torturata a morte dalla famigerata banda Collotti e, per la prima volta in Italia, anche al rom-sinti Romano Held, che suonava il violino davanti alla stazione dei treni e, arrestato a diciassette anni, non sopravvisse a Dachau.

Sempre un capannello di gente a stringersi intorno a un portone, tra le macchine di un traffico che continua indifferente, a sussurrare pensieri, più attenta e partecipe nella lontananza dagli incontri ufficiali, perché lì si era perché si voleva essere, si sentiva il proprio cuore e quello degli altri, si guardava quel quadratino di luce senza dover apparire, senza dover applaudire, condividendo e basta, vivi e morti, assieme.

«Il Giorno della Memoria non è un momento dedicato alla carezza compassionevole verso gli ebrei: è un giorno di assunzione di responsabilità per tutti, cittadini e istituzioni, centrali e locali».

Lo ha detto, secondo l’Ansa, la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, intervenendo al convegno promosso ieri in Prefettura a Trieste. «Shoah non è solo Germania e nazisti, è anche Italia e fascismo», ha aggiunto. «Le leggi antiebraiche – ha ricordato Di Segni – furono annunciate qui a Trieste 85 anni fa. Un discorso folle dalla prima parola all’ultima. Ma la piazza gremita inneggiava e applaudiva. Oggi ci sembra una visione delirante che mai potrebbe avvenire su una piazza italiana, né di quelle virtuali.

Perché allora quel che sembra impossibile è avvenuto? Perché è avvenuto! Come ci si relaziona con questo passato e cosa si è fatto negli 85 anni da allora per essere convinti che mai più possa succedere?

Non solo mai più lo sterminio ma anche mai più una piazza che inneggia a parole di odio». «È importante capire – ha aggiunto – che la Shoah non è solo Germania, Auschwitz, nazisti. È anche Italia in ogni via e piazza. Italiani e soprattutto regime fascista. È anche capire – e agire di coerenza conseguente – che il fascismo e la Rsi dal ’43 non erano solo un male per gli ebrei ma un male per l’Italia tutta».

Oggi, ha ribadito Di Segni, è «giorno di memoria e giorno di responsabilità e l’Ucei assieme a tutte le istituzioni proseguirà nell’impegno per ribadire ed esigere coerenza se avanti si vuol andare nella costruzione di un Paese che riabbraccia quel concetto di patria».

MARINELLA SALVI

da il manifesto.it

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