La crisi del “fronte repubblicano” nelle presidenziali francesi

Quando parlava Jean-Marie, suo padre, i comizi erano non al limite ma ben oltre il negazionismo dell’Olocausto. I toni erano quelli di un nazionalismo fascista da Stato francese di...

Quando parlava Jean-Marie, suo padre, i comizi erano non al limite ma ben oltre il negazionismo dell’Olocausto. I toni erano quelli di un nazionalismo fascista da Stato francese di Vichy, per una Republique che dei valori rivoluzionari e giacobini avesse solo un vago ricordo, un motivo per gloriarsi di un passato d’eccellenza rispetto al resto d’Europa. Una sorta di primato della Francia über alles contro cui si schieravano, alla fine, tutte le forze politiche di destra moderata gollista, di centro e di sinistra socialista e comunista.

Era il cosiddetto “fronte repubblicano“, l’esprit laico della Repubblica, l’union sacrée fuori dalla guerra mondiale, dentro la guerra del voto contro il pericolo che un fascista dichiarato potesse mettere piede all’Eliseo. Quando parlava suo padre, appunto, Marine Le Pen era una bambina, poi una ragazza e poi, infine, una donna che aveva deciso di seguire le orme del fondatore del Front National.

Anche nella simbologia, il partito di Jean-Marie era praticamente identico al Movimento Sociale Italiano e faceva parte di quella internazionale nera che mirava a sovvertire i regimi democratici che resistevano, nonostante tutti gli attacchi, in particolar modo interni, e si destreggiavano nella nuova avventura del consolidamento dei rapporti continentali e internazionali.

Il rendenz vous del fronte repubblicano era, pertanto, un appuntamento naturale, una consuetudine consolidata, un paletto imprescindibile della politica francese e, soprattutto, un sentimento laicamente repubblicano che pervadeva les enfants et les citoyens, che scattava come una molla, un meccanicismo indotto dalla endemica, intrinsencamente ancestrale eredità rivoluzionaria di salvare le fondamenta democratiche, sociali e libertarie di una Francia che non poteva tradire la sua storia e divenire altro da sé stessa.

L’innaturalità del fascismo era, oltralpe, un pilastro della cultura comune, un condizionamento spontaneo, una empatia social-istituzionale radicata nella concezione non solo della forma repubblicana di uno Stato che si era liberato della monarchia nel 1792 e, poi, dopo alternissime vicende, definitivamente nel 1871, ma prima di tutto della convivenza civile, dei rapporti tra l’uomo e il cittadino, dei diritti e dei doveri di entrambi nelle singole persone e nel consesso comunitario tanto dei dipartimenti quanto del corpo nazionale.

La solidità della chiamata al fronte repubblicano non è mai stata messa in discussione. Tranne in questi ultimi anni, in cui la trasformazione politica ha inseguito le evoluzioni antisociali di un mercato e di un capitalismo che hanno appesantito i costi della crisi economica globale sulle spalle dei ceti più disagiati e deboli, sul proletariato moderno delle banlieues e hanno, peraltro più che correttamente, individuato nella conduzione presidenziale di Emmanuel Macron e in quella di governo di Jean Castex il motivo essenzialmente esiziale dell’impoverimento diffuso, dell’accrescersi delle diseguaglianze.

Il movimento dei Gilets jaunes si diffonde come la Grande paura nelle campagne del 1789, avvampa in tutta la nazione ed è ben più dei rozzi tentativi di imitazione che in Italia provano a destabilizzare un quadro politico già ampiamente deformato antidemocraticamente, piegato alle esigenze dei capitalisti e alla logica imprenditoriale in tutto e per tutto. Partendo dalla rivolta contro il prezzo del carburante, i giubbotti gialli francesi dal 17 novembre 2018 al marzo del 2019 tengono praticamente in scacco la politica dell’Eliseo e del governo della Repubblica.

L’eterogeneità nella composizione del movimento è data dalle richieste di giustizia sociale, completamente inascoltate da Macron e Philippe, e pare supplire – almeno in un primo momento – ad uno spaesamento della politica tutta verso l’umore popolare, verso i bisogni concreti di una società che sta esplodendo. E’ in questi anni, forse, che inizia ad incrinarsi la solidità del fronte repubblicano, del sentimento unitario di salvezza della Repubblica dagli esperimenti autoritari fatti in nome del popolo?

E’ una domanda occorre farsi, perché proprio in quegli anni la trasformazione dell’estrema destra di Marine Le Pen è imponente, anche se si tratta per lo più di un maquillage del tutto ipocrita, teso a conservare i disvalori del passato innovando il linguaggio, i nomi e i simboli.

L’espulsione di Jean-Marie dal partito, avvenuta nel 2015 dopo l’ennesima dichiarazione sul “dettaglio” rappresentato dalle camere a gas naziste nel contesto della Seconda guerra mondiale, è utile ad un progressivo smarcamento dall’ingombrante eredità paterna per andare verso una sorta di “nuova destra“, di un nuovo patriottismo che non si discosta molto dalla xenofobia, dall’omofobia e dal rifiuto di qualunque principio laico e democratico della Repubblica.

Sarà al congresso di Lille, proprio nel marzo del 2018, in coincidenza temporale con lo scoppiare del fenomeno populiste e popolare dei Gilet jaunes, che Marine Le Pen diventerà la prima presidente del nuovo partito, il Rassemblemant national, dove la fiamma tricolore neofascista sarà resa meno spigolosa, più dinamicamente moderna, con una silhoutte decisamente accattivante. Così deve essere se si vuole provare ad uscire dalle secche del minoritarismo del più volte allontanato Jean-Marie e del suo nostalgismo per il Terzo Reich e per Vichy.

L’operazione riesce, ed infatti oggi siamo qui a rievocarla perché il pericolo che la destra di Marine Le Pen arrivi in questo 2022 all’Eliseo si sta facendo sempre più concretamente reale. La campagna elettorale per le presidenziali l’ha presentata come “Femme d’etat“, la donna di Stato, che vuole un referendum per abolire lo Ius soli, ridimensionare (se non eliminare del tutto) le tutele per le minoranze etniche, fare della cittadinanza francese un diritto non più acquisibile per nascita nel territorio della Repubblica, impedire i ricongiungimenti familiari tra migranti e maggiorando una politica di assistenza a “les citoyens les plus faibles” prendendo i fondi oggi destinati all’accoglienza.

Non che le politiche di Macron siano state meno tenere verso le fasce di popolazione meno abbiente e nei confronti degli emarginati: tutto rientrava nella logica del liberismo moderno, per cui meno Stato e più privato, soprattutto più privato nello Stato, era il paradigma cui adeguare tutte le altre azioni del governo. Il successo di Marine Le Pen, data per seconda nei sondaggi, dimostra che il malcontento popolare è diffusissimo e, tuttavia, il sovranismo neofascista mascherato da destra moderna non è il solo avversario che l’attuale presidente può vantarsi di avere.

Pur avendo fatto quasi il pieno dei consensi di una sinistra socialista in crollo verticale da molti anni, Jean-Luc Mélenchon tallona i due primi contendenti con percentuali di consenso dichiarato che variano dal 17 al 19%. Avercela una sinistra così in Italia… E non soltanto per le percentuali che esprime, ma per la pluralità di posizioni che, anche nell’asprezza del confronto, non escludono collaborazioni da fronte repubblicano in alcun modo. Almeno nella gauche non si mette in discussione l’unità delle forze antifasciste e democratiche.

Il fatto che il Partito comunista francese abbia deciso di correre in solitaria, candidando il giornalista Fabien Roussel, non significa che la spaccatura con La France Insoumise sia irrimediabile: è uno smarcamento da quella “asfissia” denunciata dal PCF più volte. Una ricerca di autonomia dentro una cornice dialettica a sinistra che rimane l’asse portante del confronto, soprattutto a livello locale, dipartimentale, dove LFI sembra meno radicata e organizzata rispetto allo storico partito di George Marchais.

Dove, dunque, può cedere il fronte repubblicano al secondo turno? Perché al ballottaggio si andrà senza alcuna ombra di dubbio, ma dipende come e con quali candidati si andrà. Non è affatto scontato che Mélenchon non possa fare un balzo in avanti e contendere il secondo posto della partita. Non è nemmeno sicuro che il secondo posto in questione sia appannaggio esclusivo della figlia di Jean-Marie. Potrebbe presentarsi uno scenario ancora più stimolante dal punto di vista politico ma, per questo, veramente intricato: un ballottaggio tra Marine Le Pen e il leader della sinistra moderata.

In quel caso, molto remoto a dire il vero, come si comporterebbe il fronte repubblicano? I macroniani finirebbero per frantumarsi e spaccarsi in diversi tronconi, esattamente come avverrà a La France Insoumise se l’alternativa sarà tra l’attuale presidente e Marine Le Pen. Una parte si riconoscerà nell’appello all’unità antifascista e democratica per la salvezza della Repubblica; un’altra parte si asterrà per l’equipollenza nauseabonda delle posizioni di entrambi i contendenti e, infine, una terza parte farà il peggio del peggio: voterà per il più lontano valorialmente da sé stessa.

Ma, se è purtroppo legittimo pensare che una parte dei voti dati al candidato de La France Insoumise (e non solo) andrebbero al ballottaggio all’ipotesi sovranista xenofoba e omofoba lepeniana, è altrettanto legittimo pensare – leggendo le ultime dichiarazioni dei candidati e le rilevazioni sondaggistiche più minuziose – che altrettanto non accadrebbe se la partita dell’Eliseo se la giocassero Le Pen e Mélenchon.

Si tratta, indubbiamente, di un po’ di fantapolitica, ma la crisi del fronte repubblicano qui diventa del tutto evidente, perché la chiamata alla salvezza, forse, funzionerebbe soltanto nel caso in cui fosse diretta di più verso il mondo progressista piuttosto che verso quello conservatore, liberale e liberista.

La parte degli opposti estremismi non funziona più molto, almeno dopo che il ruolo del poliziotto cattivo è stato dato a Zemmour, mentre a sinistra sono decisamente marginali, al di là del 3% dato al segretario del PCF, le formazioni trotzkiste di Lutte Ouvrière con Nathalie Arthaud e purtroppo anche del Nouveau Parti Anticapitaliste di Philippe Poutou. La contesa tra Macron e Le Pen si gioca, nell’attuale scenario di guerra, sul piano del richiamo alle priorità nazionali, con un presidente che inscrive la Francia tutta interna all’Europa di Bruxelles, alla NATO e al liberismo tout court, e una sfidante che punta su sé stessa come “una donna che ama i francesi” prima degli immigrati e di chiunque altro.

Il fronte repubblicano va alla prova della propria tenuta il 24 aprile prossimo avendo davanti, salvo clamorosi sviluppi e smentite di qualunque sondaggio, la scelta tra la conferma dell’atlantismo-liberista da un lato e la promessa di un sovranismo non più così anti-europeista e filoputiniano come un tempo.

Ecco, noi non possiamo metterci così tanto nei panni di un francese da scegliere per lui: ammettiamo che la scelta sarebbe molto complicata, non tanto nel valutare quale dei due candidati preferire, perché, almeno per chi ha un po’ di veri princìpi repubblicani e di sinistra vera in testa e nel cuore non si pone di dare un voto, anche di protesta, ad una neofascista mascherata da donna di Stato, quanto nel dirimere l’enigma se sia utile salvare la Repubblica scegliendo il meno peggio. Sarebbe un “voto contro” per lavorare poi contro quel voto stesso, preservando la formalità sostanziale (e la sostanza formale) della Costituzione francese.

Per combattere il liberismo abbiamo bisogno non del neofascismo dai tratti imbellettati di destra moderna e tollerante, ma di uno spazio di agibilità politica che il liberalismo democratico può consentire di avere. Una insufficienza tutta borghese. Siamo d’accordo. Ma sempre meglio di avere all’Eliseo una amica di Putin e dell’internazionale nera, mutatis mutandis, che va da Vox a Fidesz, dalle destre neofasciste italiane a quelle baltiche e balcaniche, nonché, oltreoceano, fino alla galassia conservatrice e reazionaria trumpiana.

Il fronte repubblicano francese deve attrezzarsi fin da ora a questa scelta. E non può permettersi di non farlo.

MARCO SFERINI

10 aprile 2022

foto: screenshot

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