I dieci anni di Francesco, riformatore e impossibile rivoluzionario

Più che opportunamente si fa riferimento agli ultimi due pontificati, precedenti quello di Jorge Mario Bergoglio, come ad un lungo periodo di restaurazione parziale di un tradizionalismo dottrinale da...
Papa Francesco

Più che opportunamente si fa riferimento agli ultimi due pontificati, precedenti quello di Jorge Mario Bergoglio, come ad un lungo periodo di restaurazione parziale di un tradizionalismo dottrinale da un lato e di un neo-cristianesimo dalle radici ben piantate in una revisione critica del Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pur nelle reciproche differenze, sono assimilabili ad una interpretazione evangelica che non transige alle aperture possibili ad una modernità innovatrice.

Anzi, vi si chiude soprattutto con la fine del rapporto di larghissima empatia determinato dal linguaggio, questo sì moderno, di papa Wojtyla con enormi masse giovanili, il ritrovato spirito ecumenico nelle Giornate della Gioventù e una Curia romana che, in questo modo, può dottrinalmente conservarsi e apostolicamente dare una immagine di sé stessa al di fuori di una continuità vetusta, tutta pre-novecentesca, ancora legata ad una idea di superiorità morale che si scontra con, ad esempio, il carattere laico della Repubblica Italiana e di una Europa della tolleranza.

Le dimissioni di Ratzinger sono un atto che entra nella mitologia ecclesiale, nel regno del mistero: perché già dai primi giorni concitati si faranno mille ipotesi, si discuteranno altrettante illazioni e si formuleranno sentenze che si riveleranno poi del tutto infondate. Il destino del gran rifiuto di Benedetto XVI a continuare nel suo ministero petrino è quello, ormai, di convivere con il regno del nuovo pontefice.

E sarà così, per quasi un decennio. Quello che proprio in questo marzo si celebra: quello in cui Francesco ha operato per introdurre tutta una serie di modifiche quasi post-moderne e indubbiamente molto al di là del conciliarismo innovatore del Vaticano II, spingendosi a mettere in discussione prima la centralità assoluta della Curia romana, per poi, osteggiano e frenato da possibili tentativi di scismi, a seguire una via riformatrice cauta ma non di sicuro rassegnata.

Se esiste un’istituzione, un potere che appare quasi irriformabile dal suo interno è proprio quella monarchia assoluta e teocratica che è la Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Per questo le spinte innovatrici sono quasi sempre venute dall’esterno, come stimoli da parte di importanti settori del mondo ecclesiale, ma quasi mai queste propulsioni si sono generate direttamente in seno al Vaticano.

Impossibile prendere come esempio eclatante il concilio voluto da Giovanni XXIII: qui si tratta di un motu proprio di una società intera che costringe alla resilienza una chiesa riluttante per tanti versi e che, alle soglie del primo decennio del nuovo millennio guarda ancora al rito tridentino, seppure in “forma extraordinaria“. Ed è proprio la rinascita di un forte sentimento laicale, democratico, se vogliamo anche in parte liberale oltre che apertamente di sinistra e progressista, ad incidere con determinazione anche nelle scelte successive del governo interno della Chiesa e della sua proiezione “cattolica“, quindi universale.

I dieci anni di pontificato di Francesco, da questo punto di vista, segnano una novità di non poco conto: bisogna considerare anzitutto la frattura determinata dalla scelta del conclave che, con l’elezione di Bergoglio, dà un segnale plurale di innovazione culturale, sociale e, quindi, anche politica.

Gesti e parole del nuovo papa divengono segnali di un rinnovamento che la Chiesa interpreta come necessario, ineludibile ma che intende governare comunque sempre dall’alto di una predestinazione divina in quanto a dettami morali, lasciando che la fede si faccia meno impermeabile al raziocinio, alla scienza, al confronto stesso con le altre culture.

La fede tra le fedi, il pensiero tra i pensieri e dio messo a disposizione soprattutto di coloro che sono più riottosi nell’accettare la sacralità che pretende di permeare tutta una ritualità che appare anacronistica, fatta dello sfoggio di una ricchezza che contraddice il messaggio di semplicità e di povertà della chiesa di un pontefice che sceglie un nome tutt’altro che a caso.

Francesco è, per questo, non una soluzione di continuità col passato ma, semmai, una sua evoluzione, quella meno indolore possibile per un mondo cattolico che deve affrontare ancora l’onda lunga di tanti scandali sul piano economico, su quello della sessualità e sui rapporti non sempre limpidi con i governi di tanti Stati dove la nostra idea di democrazia occidentale non brilla per niente.

Il suo approccio, da uomo ben piantato nel secolo scorso, è tuttavia sorprendente, perché va oltre le attese del conclave che, tuttavia, fino alla morte di Raztinger può ancora fare affidamento, almeno iconograficamente, sulla presenza di due papi, su una diarchia impropria e non riconsciuta che, tuttavia, rappresenta la divisione interna alla Curia romana ogni volta che si tratta di affrontare argomenti per l’appunto divisivi.

E questa divisività è quasi sempre elemento che pervade i grandi temi sociali e civili di un’epoca in profondo mutamento: lavoro, ambiente, scuola, giovani, sesso, scienza, fede, ragione, vita e morte, guerra, pace, razzismo, xenofobia, omofobia, scandali interni alla Chiesa e ripercussioni globali. Fin dall’inizio del suo pontificato, Francesco mostra determinazione, capacità persuasiva, elasticità nell’adattarsi senza farsi trascinare nel vecchio solco del tradizionalismo antirelativista di Ratzinger.

Certo, è il papa, quindi non ci si può aspettare che faccia del Vaticano una sorta di centro sociale, qualcosa di altro da sé stesso; per cui non c’è da sorprendersi se difende senza tentennamenti l’aborto, se considera l’omosessualità non un crimine e nemmeno un peccato mortale (ma comunque un peccato rimane), di sicuro nemmeno una malattia, ma poi gli è impossibile fare il passo ulteriore: dire che l’amore è amore a prescindere dal sesso, dal genere, da qualunque cosa.

Gli va riconosciuto un certo coraggio nell’affrontare temi che lo rendono impopolare presso una parte del popolo cattolico che lo considera una sorta di antipapa, riconoscendo ancora in Joseph Ratzinger il vero pontefice. I settori più retrivi e conservatori della Chiesa tributano a Francesco una serie di epiteti che ne fanno una specie di involontario e molto, molto improbabile rivoluzionario, quasi un comunista: senza dubbio un pericoloso progressista.

Ma niente di tutto questo, in fondo, sembra vero. Le mosse di Francesco, che si scaglia senza reticenze contro il potere nichilista del capitalismo, contro la sua distruzione della natura, della vita in generale, come propalatore di gigantesche ingiustizie globali da cui sembra sempre più difficile venire fuori, sono comunque tese a dare alla barca della Chiesa una navigazione più sicura nelle onde alte di una modernità che sembra già vecchia rispetto ai sommovimenti epocali che deve affrontare.

La denuncia della “terza guerra mondiale” diffusa, non dichiarata e tante volte irriconoscibile nei singoli conflitti sparsi per il pianeta, nel momento in cui è stata enunciata è parsa a molti commentatori come una esagerazione, un epiteto quasi populista per una riorganizzazione violenta di molti regimi in paesi dimenticati dalle cronache, dove i conflitti si protraggono da decenni e decenni.

Invece il papa vede bene lo scontro mondiale in atto: lo vede quando si appella alle grandi potenze come a qualcosa che sfugge, per propria connaturazione, ai soliti schemi interpretativi tanto delle politiche interne quanto di quelle estere e, in particolare, di guerra. Vede altrettanto bene quando lega questa denuncia di depravazione disumana ad un capitalismo vorace, che imperversa e che fonda le sue sorti su una ripartizione economico-finanziaria e militare del pianeta tra USA, Russia e Cina.

Il suo messaggio totalizzante di pace si contrappone all’altrettanto totalizzante pensiero unico sulla necessità del riarmo, dell’implementazione dello scontro nel nome di una democrazia che alcune volte si pretende pelosamente di esportare e che oggi si dichiara già presente laddove, in Ucraina, si dà seguito ad una repressione politica nel nome dell’emergenza sul campo. Si chiudono giornali, televisioni e partiti di opposizione, filo-russi e si pretende di dare lezioni di pluralismo tramite tutto l’armamentario tecnologico e spionistico della NATO e degli USA.

La voce di Francesco, potente e pacata al tempo stesso, si infrange contro questo muro di conservazione che mette d’accordo tanto buona parte del mondo cattolico quanto altrettanta buona parte di quello laico. Ci sono importanti eccezioni: tra tutte “l’Avvenire” e molte comunità di base che ritrovano nel pensiero di Francesco un originarietà cristiana che fa leva sul messaggio primordiale di fratellanza universale, senza distinzione alcuna.

Ci sono invece altri settori della Curia romana che ritengono la linea del pacifismo nonviolento (perché, sì, esiste anche un pacifismo che tollera la violenza, l’invio delle armi e la guerra stessa…) una strada senza ritorno, una possibile sconfitta culturale e politica per la Chiesa. Francesco sembra non pensarla così ma, oggettivamente, pare sempre più isolato nell’intellighenzia vaticana e nel codazzo di intellettuali che la circondano, da cui si ispirano e che consigliano.

La solidità del suo papato è data, senza alcuna ombra di dubbio, dalla popolarità davvero enorme che conserva fin dal primo giorno, fin da quell’emblematico «Buonasera» pronunciato al principio del suo discorso di presentazione urbi et orbi, irrituale e convenevole, teso a stabilire fin da subito un rapporto esclusivo con la popolazione, con chiunque voglia pensare al pontefice come ad un amico più che ad un teologo raffinato o ad un sovrano di uno Stato assoluto.

E’ giusto dare a Francesco ciò che è di Francesco: tutto il merito di aver scombussolato quella parte di cattolicesimo guarescamente trinariciuto, nemesi di sé stesso, per niente disposto a riconoscere nel relativo una nuova sorgente dialettica, un ricco terreno di confronto anche teologico mediante sfide che non possono escludere ma soltanto includere quelli che sono considerati detrattori per antonomasia.

Rischia di esagerare nella positività dei giudizi quella sinistra che si spinge fino alla venerazione di un pontefice che, entro i confini dell’ecclesia, è oggettivamente un riformatore (o almeno prova ad esserlo), ma da cui non può altrettanto oggettivamente venire nessuna spinta rivoluzionaria per dei rapporti economici, tra ricchezza e povertà, tra sfruttati e sfruttatori.

Il cattolicesimo di base può essere un alleato progressista di tanto in tanto, ma non può condividere un cambiamento radicale del sistema: critica il capitalismo e lo rimbrotta per i suoi eccessi ma non potrà mai arrivare alla definizione di una alternativa di società, di qualcosa che, necessariamente, metterebbe in discussione il ruolo stesso del potere ecclesiale e la funzione della religione come anestetizzante i disagi e i dolori quotidiani di una umanità distruttiva ed autodistruttrice.

Bisogna saper apprezzare le parole del papa, ma bisogna anche saperle criticare. Una dualità interpretativa che fa bene anche a sinistra, perché preconcetti e dogmatismi sono prima di tutto nemici del libero pensiero, della critica consapevole, della giustapposizione tra laicità e credenza, tra ragione e fede.

MARCO SFERINI

12 marzo 2023

Foto di Annett_Klingner da Pixabay 

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