È Klara Hitler, nata Pölzl, a raccontare la sua gravidanza, quei nove mesi che dal luglio del 1888 all’aprile del 1889 la vedranno portare in grembo il futuro capo del nazismo, il führer del Terzo Reich, suo figlio Adolf. Il padre, Alois, che lei chiama «lo Zio», è un funzionario della Dogana imperiale austriaca, un uomo violento e paranoico che abusa di lei da quando era a servizio presso la sua prima moglie.

L’altra figura di rilievo della storia è l’abate Müller, il confessore di Klara, un fanatico antisemita che accusa la donna di stregoneria ogni volta che quest’ultima racconta un suo sogno o una sua fantasia. In 1889 (Clichy, pp. 238, euro 19,50, traduzione di Tommaso Gurrieri) Régis Jauffret dà forma a tutte le ombre che hanno accompagnato la nascita di una delle figure più terrificanti della Storia umana.

Lo scrittore francese – che è tra gli ospiti di Book Pride, domenica alle 16,30 presenterà il suo libro con Marco Missiroli nella Sala Ottawa -, già autore dei due volumi di Microfictions (Clichy), guida il lettore alla scoperta della genesi del male del Novecento.

Cosa significa «raccontare» Adolf Hitler mentre ancora si trova nel grembo della madre: quale lo spunto da cui è nato il romanzo?

Trovavo appassionante scrivere un romanzo sulla gravidanza di Klara Hitler. Una gravidanza simile a tutte le altre ma destinata a portare alla nascita del più grande mostro di tutti i tempi, quello senza il quale il secolo seguente sarebbe stato diverso, che avremmo potuto immaginare migliore, in ogni caso meno devastante – anche se i dittatori, i predatori al livello di Stati come l’Urss, la Cina di Mao, la Cambogia di Pol Pot, erano una legione nel XX secolo.

L’idea che la Storia dipenda da un feto che da un momento all’altro potrebbe scomparire per sempre in un aborto spontaneo, o in qualche incidente, in un’epoca in cui la medicina prenatale non esisteva, è, in un certo senso, scioccante. Inoltre, questa gravidanza permette di indagare la famiglia in cui Hitler visse l’infanzia e parte della sua adolescenza. Colpisce il ritratto del padre. Un uomo vile, sordido, violento, una canaglia che ha sposato sua nipote, di cui Hitler è uno dei frutti.

Klara era ossessionata dalla religione, e subiva l’antisemitismo del suo confessore, il padre era un funzionario delle Dogane con il mito dello Stato e l’idea fissa dell’igiene e del rischio-contagio. Il male di cui sarà all’origine, Hitler lo aveva almeno in parte ereditato dal contesto famigliare?

Non è un dettaglio evocare le confessioni settimanali di Klara Hitler con un prete che avrebbe avuto molta influenza su di lei, come accadeva spesso all’epoca. Possiamo ritenere che in seguito Hitler sia stato assolutamente ateo, resta il fatto che fu segnato da questa educazione. Senza contare che fu obbligato a scendere a compromessi con Roma: temeva il Vaticano e le reazioni umaniste dei preti – soprattutto durante lo sterminio dei disabili mentali che dovette interrompere anche per l’opposizione dei cattolici -, anche se questa reazione si fece talmente attendere che quando si manifestò lo sterminio si era quasi del tutto concluso.

Scese a patti con la Chiesa – con Pio XI che non fu certo un esempio di antirazzismo, detto con un eufemismo -, attraverso un Concordato firmato nel 1933 (Reichskonkordat, ndr) e tuttora in vigore. Per quanto riguarda l’igiene, erano i tempi in cui Louis Pasteur aveva scoperto i microbi. All’epoca era scoppiata una vera fobia. In più, ogni razzismo, qualunque esso sia, si basa sul sostenere che il gruppo etnico che odia è sporco. Nel libro questa caccia ai microbi ha ovviamente una risonanza simbolica.

La famiglia Hitler è segnata dagli abusi, a cominciare da quelli che la madre subisce dall’uomo che chiama Zio e con il quale è effettivamente imparentata, ma anche dal rigetto nei confronti degli ebrei. È questo clima sordido che ha accompagnato l’«educazione sentimentale» del futuro Führer?

Hitler è nato in una famiglia in cui le donne venivano abusate, sottoposte a violenza domestica e coniugale. L’incesto e lo stupro erano così diffusi che si possono, a ragione, mettere in discussione le stesse filiazioni. Tuttavia, la maggior parte degli storici concorda sul fatto che Adolf Hitler sia davvero il figlio di Alois. Quanto all’antisemitismo, all’epoca era presente in tutta Europa e naturalmente anche in Austria dove, dopo l’Anschluss, la popolazione si rese colpevole di violenze e umiliazioni contro gli ebrei.

Hitler era immerso in un’atmosfera sordida e violenta e questo ha contribuito a fare di lui il mostro che sarà in seguito.
«1889» intreccia i ricordi di Klara a quanto lei stessa andava annotando in un quaderno che teneva al riparo da occhi indiscreti. Questo espediente narrativo consente di ascoltare un flusso quasi indistinto di pensieri: siamo di fronte ad una confessione?

Una confessione? Non lo so. Il flusso di pensieri di Klara aiuta ad abbracciare la realtà della sua gravidanza e il mondo in cui vive, ma li mette anche in prospettiva con la vita futura di Hitler. Non solo, Klara sta esaminando tutte le possibilità: dal suo grembo avrebbe potuto nascere, invece del dittatore, un semplice funzionario come suo padre, un ufficiale, o anche un santo.

La madre di Hitler sogna «treni, migliaia di vagoni pieni di esseri umani portati al massacro». Cosa rappresentano queste «visioni», tragicamente così simili a quanto suo figlio contribuirà a realizzare?

Credo che fosse impossibile parlare di Hitler, anche se prima della sua nascita, senza fare allusione a ciò. Senza la Shoah non sarebbe stato altro che un autocrate, un conquistatore senza scrupoli come tanti nella storia dell’umanità. In questo libro la Shoah appare come una sorta di pre-eco di quanto accadrà decenni dopo. Un riflesso del futuro, come se potessimo camminare nel tempo come facciamo nel paesaggio.

Nella postfazione lei scrive che questo romanzo è il suo contributo al Memoriale che si dovrà erigere quando anche gli ultimi testimoni della Shoah saranno scomparsi. In che misura la storia che ha raccontato entrerà a farne parte?

È molto vanitoso da parte mia pretenderlo, ma senza parlare del mio caso specifico, è evidente che nel momento in cui la stragrande maggioranza dei protagonisti di quest’epoca sarà morta, il nazismo rischia di diventare un oggetto di finzione come altri momenti della Storia.

Ho sempre pensato che la narrativa sia una forma di riflessione, uno strumento di ricerca perché permette di mettere in prospettiva particolari eventi con il resto della Storia, anche con il presente, e di immaginare, alla luce degli elementi che abbiamo, tutto ciò che i documenti non sono in grado di rivelarci – tra l’altro perché lo storico non penetra nella mente dei protagonisti, cosa che il romanziere si permette di fare. Anzi, si potrebbe quasi dire che questa sia la sua funzione.

GUIDO CALDIRON

da il manifesto.it

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