Crisi di governo: cambio d’abito o di indossatore?

La crisi del governo prende la strada del Colle in mezzo ad un contorto scenario di discussioni quasi interpersonali, singole, francamente molto noiose e prive di un vero valore...

La crisi del governo prende la strada del Colle in mezzo ad un contorto scenario di discussioni quasi interpersonali, singole, francamente molto noiose e prive di un vero valore politico. Un valore che possa, non si sa bene in quale modo, dare un nuovo slancio all’esecutivo tanto in una ritrovata maggioranza parlamentare quanto agli occhi di una popolazione che assiste impotente alle accelerazioni previste e alle fermate obbligate in merito alla somministrazione dei vaccini.

Qualcosa sta andando storto e non soltanto sul fronte interno tra le forze politiche che si proiettano, volenti o nolenti, verso il “Conte ter“, ma pure sul panorama europeo. Per fortuna (si fa per dire…) che gli accordi con le multinazionali dei farmaci sono stati presi a livello continentale, altrimenti sarebbe scattata – proprio in questa fase – una lotta concorrenziale non solo tra le case produttrici, ma tra i singoli Stati dell’Unione Europea con tutte le conseguenze del caso in termini di uniformità (o quasi) delle somministrazioni dei vaccini per mantenere (qualora veramente esista) una strategia di lotta comune nei confronti del Covid-19.

Non servono né molta arguzia, né molto intuito politico per capire che la crisi dell’asse LeU-PD-Cinquestelle con Italia Viva è recuperabile soltanto se lo svantaggio singolo è più impressionante rispetto a quello comune. Come è avvenuto sovente in passato, anche questa crisi non nasce per una dedizione di questo o quel ministro, di questo o quel deputato o senatore che si producono in uno slancio in difesa del bene comune del Paese.

Tutta retorica, in salsa un po’ patriottica e un po’ responsabilista. Del resto vanno di moda grandi quantità di sinonimi: responsabili, costruttori, addirittura qualcuno riesuma il termine “pentapartito” per prefigurare la possibile soluzione della caduta del Conte bis con una cinquina di forze rappresentate dal trittico esistente più un recupero su Italia Viva e l’aggiunta del gruppo parlamentare che dalle parti di Palazzo Chigi chiamano “i centristi“, ma sulla cui composizione non è dato sapere chi vi aderirà (UDC, transfughi di Forza Italia, ex socialisti…) e quale nome prenderà l’eventuale nuovo gruppo parlamentare al Senato della Repubblica.

La crisi di governo che si apre formalmente oggi, con le dimissioni di Conte, è per davvero quella che si può chiamare “una crisi al buio“. Non sarà infatti un punto di programma o una riforma non messa in campo a far riconsiderare tanto ad Italia Viva, quanto a PD e Cinquestelle, la riapertura di un tavolo di trattative per ricomporre la maggioranza scomposta pochi giorni fa. Così come non saranno solamente i numeri del Recovery Plan a poter essere incolpati come i gaglioffi che hanno dato adito alle più prevedibili pretestuosità di partito e di parte, per dare una ristrutturazione al panorama politico italiano.

E’ una crisi che si vorrebbe “a-ideologica“, scevra da punti di riferimento ideologici, tutta puntata su un ricorso ad un pragmatismo che dovrebbe sostituire il peso delle idee, le differenze di visione globale del mondo proiettato nel futuro prossimo con una concretezza fattiva. Non è la fisionomia esatta della crisi, ma è ovvio che il refrain continuo sulla “morte delle ideologie“, portato avanti dai grillini fin dagli albori del loro movimento, non giova a stabilire le ragioni almeno formalmente vere (ma tutt’altro che veritiere nell’essere il motivo scatenante della fratttura della maggioranza) del perché oggi Giuseppe Conte sia costretto, dopo dieci giorni dalla risicata fiducia datagli dal Senato, ad incontrare il Presidente della Repubblica ed a rimettere nelle sue mani il mandato.

Se la ratio della crisi sfugge – si fa per dire – alla comprensione tutta politica della fase in cui viviamo, è abbastanza sicuro invece che lo scenario del ritorno al voto sia quello meno probabile e su cui si potrebbe scommettere dieci a uno. Almeno…

Il timore del ricorso al voto è un grande disincentivo per gli anche più accaniti sostenitori della volontà popolare come risoluzione delle controversie attuali. Sarebbe costituzionalmente molto corretto dirimere effimere questioni di distinzione politica, basate essenzialmente su lotte di potere e di rappresentanza del potere (economico) stesso, tramite il giudizio popolare. Ma la condizione pandemica è grave, non accenna a diminuire e il ritardo nelle spedizioni dei vaccini sposta in avanti tutte le lancette di una storia ancora molto lunga.

Intanto le condizioni sociali si aggravano, soprattutto quelle dei lavoratori dipendenti, degli indigenti di lungo corso, dei precari e dei disoccupati. Il commercio, le aziende a gestione familiare, le piccole imprese nate da partite IVA, quelle appena aperte prima della pandemia sono nell’occhio del ciclone. Il concetto che viene sempre più pronunciato in queste ore nei salottini televisivi è quello riguardante la destinazione delle centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund: senza un governo con una chiara visione politica di indirizzo di questa enorme marea di soldi, si rischia di non dare all’Europa le garanzie necessarie per farsi affidare quel tesoro mai visto.

Del resto, se già prima le risorse erano malamente collocate (lampante il caso della voce primaria in questo periodo: quella della sanità pubblica a cui andavano all’inizio solo 9 miliardi di euro su 222…), mentre rischia di passare alla storia come “grande conquista sociale” la recalcitranza renziana proprio su punti come quello citato, oggi il timore è che, se prendesse concretezza l’ipotesi del ritorno alle urne, la gestione del Recovery Fund sarebbe rimandata a data da destinarsi, con un governo in carica solo per la normale amministrazione.

Nella situazione attuale, qualcuno avrebbe davvero il coraggio di poter parlare anche solo latamente di “normalità” mentre imperversa il Covid, mentre persino l’Europa si infuria verso le grandi multinazionali farmaceutiche (come AstraZeneca) per il taglio corposo delle dosi vaccinali da distribuire in tutti gli Stati dell’Unione?

Si opererebbe una scissione istituzional-sociale tra emergenza sanitaria e poteri affidati ad un esecutivo nemmeno tecnico e di transizione, ma solamente rimasto in carica per il disbrigo delle formalità, per esercitare più che altro soltanto quel ruolo di garanzia che gli viene affidato dalla Costituzione quando si apre un vulnus governativo e devono passare almeno due mesi tra la messa in campo delle proposte politiche da presentare ai cittadini, la campagna elettorale vera e propria e poi il responso delle urne.

Il trittico giallo-rosa fa però quadrato intorno a Conte, l’uomo della resilienza politica più spregiudicata di questi ultimi decenni, che si sposa praticamente con candore alla pacatezza che dimostra avere nei confronti anche dei più agguerriti critici ed avversari. Un vero democristiano di nuovo periodo, che tiene il santino di Padre Pio nel portafogli, che confida negli equilibri dei poteri, nel loro rispetto, nel liberismo temperato che fa così adirare il presidente dei Confindustria che vorrebbe ancora più mano libera nella difesa di privilegi economici insostenibili all’ennesima potenza, oltre ogni ragionevole dubbio, in un periodo di gravosa pandemia.

Se dalla crisi del Conte bis nascerà una maggioranza non dissimile da quella attuale, con alcune minime correzioni nella squadra di governo, allora il Presidente del Consiglio potrà dire di aver respinto in qualche modo l’offensiva renziana che oggi sembra segnare un punto a suo favore: come Renzi auspicava, la partita si gioca al centro del campo politico, puntando ad un ridimensionamento dell’incidenza del PD nell’asse della nuova probabile maggioranza.

Se invece non sarà soltanto un cambio d’abito ma a cambiare sarà proprio l’indossatore, il modello principale della sfilata, allora avrà prevalso il vero motivo della crisi di governo: l’equilibrio tra forze così diverse eppure così unificabili dal fulcro contiano. E’ anche probabile che a qualcuno sia dispiaciuto che un professore sconosciuto al 99% del Paese sia divenuto, con l’aiuto di alterne vicende, un politico molto più consumato di altri che sono passati per anni e anni di anticamere e gavette parlamentari.

Dietro ogni analisi politica, dietro ogni parola che presume una tattica di partito o di coalizione, si nasconde comunque il dettame economico. Non lo dovremmo dimenticare veramente mai.

Parrebbe quasi essere una nemesi storica questa crisi, ed invece è la precisa volontà di Confindustria e della grande economia (grande si fa per dire, purtroppo…) del nostro Paese che stanno lavorando di sponda (e anche piuttosto direttamente e bene) per ridisegnare i confini di un riformismo neoliberista che si sganci tanto dal sovranismo estremo quanto dalle tentazioni sociali del populismo grillino o di quelle rimaste nella reminiscenza di sinistra di un PD che è tutto centro, con il satellite di LeU che esercita una debole forza di gravità sul moto terrestre della politica italiana.

Non c’è passo politico che si possa fare, in particolar modo dalle postazioni di maggioranza e di governo, senza tenere in debita considerazione le pretese padronali, quelle di classe, motore endemico, strutturale di una società che le ideologie possono condizionare ma che solo le forze materiali possono, alla fine, veramente sovvertire e rovesciare.

MARCO SFERINI

26 gennaio 2021

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