Il “sole nero”, eclisse antistorica di un logoramento sociale e civile

La sottovalutazione sembra la dinamica privilegiata in alcuni ambiti divulgativi della massmediologia italiana: giornali, televisioni e siti web minimizzano volentieri la carsica ramificazione di ombre nere che si strutturano...
Il "sole nero" nella "Obergruppenführersaal" del castello di Wewelsburg, sede dell'"Ahnenerbe"

La sottovalutazione sembra la dinamica privilegiata in alcuni ambiti divulgativi della massmediologia italiana: giornali, televisioni e siti web minimizzano volentieri la carsica ramificazione di ombre nere che si strutturano tramite i canali social e che interagiscono sempre più rapidamente.

Pochi giorni fa a Savona è stato arrestato un giovane di 22 anni con l’accusa di terrorismo, di organizzazione di una associazione denominata “Sole nero” (che richiama alla simbologia adottata da Heinrich Himmler per portare le sue SS nell’alveo dell’esoterismo fino alla ricerca del Santo Graal e delle origini divine della stirpe germanica, tradendo persino la storia di Arminio) che avrebbe mirato a concretizzare atti violenti, sparatorie nelle scuole come dimostrazione di una forza, di una determinazione a puntare al cuore del problema: l’eliminazione degli ebrei dalla vita sociale e politica dello Stato.

Perché, secondo questo ragazzo, secondo i suoi interlocutori anche minorenni, il dramma dell’umanità sarebbero per l’appunto gli eredi della stirpe di Davide, le donne e gli omosessuali. Non sono citati, ma probabilmente anche rom, sinti, handicappati e chissà quante altri “inferiori” potrebbero rientrare nell’escatologia neonazista proposta da ragazzi all’apparenza figli del nuovo millennio, che hanno soltanto lambito la fine del tragico ‘900 in cui, a causa del fascismo e del nazismo, sono state rase al suolo gran parte d’Italia, la Germania pressoché interamente e per i cui deliri razzisti sono state mandate a morire decine di milioni di giovani e, alla fine del 1945, persino di ultrasettantenni nella “battaglia di Berlino“.

Ripetere le gesta stragiste di Breivik ad Utoya o quelle di Tarrant a Christchurch, oppure emulare Traini. L’elogio del sangue degli altri come catarsi di un “nuovo ordine sociale” (così veniva descritto il progetto terrorista): un miscuglio di nostalgia della svastica e del fascio littorio, una immersione totale e totalitaria in un passato dove si cercano valori che sostituiscano quelli attuali, eppure già ampiamente compromessi dal neopauperismo dilagante – anche a causa dell’ondata pandemica che non accenna a trattenersi e a diminuire – che intacca le democrazie liberali ed anche le alternative progressiste che potrebbero e dovrebbero invece trovare nei moderni sfruttati, in giovani come il ventiduenne di Savona, una speranza rivoluzionaria per un mondo da capovolgere.

Ma senza stragi, con la costruzione politica, con il rafforzamento dei diritti sociali mediante le lotte sindacali, con la condivisione universale dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino nel rispetto della nostra Costituzione che discende dall’esatto opposto di ciò che questi ragazzi invece aspirano a costruire.

La minimizzazione, dunque, è un clamoroso errore: non ci si può appellare a frasi fatte, del tipo «Sono ragazzi… Sono giovani… Poi capiranno». No. Non è una giustificazione, perché il problema non è anagrafico ma riguarda il tipo di cultura che permea questa società: per troppo tempo, nel nome della libertà di pensiero, è stato consentito dal mondo accademico, da quello storico, sociologico e soprattutto dal mondo politico, che si mostrasse come legittima la narrazione di un profilo antitetico del cammino umano nel ‘900. La storia dell’Italia fascista, della guerra e anche quella del dopo-guerra, è stata oggetto di un revisionismo voluto nel nome della “pacificazione” e della “memoria condivisa“.

Mentre la Costituzione veniva messa sotto inchiesta, in tante sue fondamentali parti regolamentanti la struttura portante della democrazia repubblicana, dai diritti dei lavoratori alla centralità del Parlamento, parallelamente l’attacco culturale del revisionismo si faceva largo accusando i fondatori del nuovo Stato, nato dalle macerie del regime dittatoriale di Mussolini e dal tradimento di Casa Savoia nei confronti del popolo italiano, di aver nascosto la verità su una Resistenza macchiata di sangue innocente.

I libri di Pansa, i film come “Porzûs” o, più recentemente, “Red Land (Rossa Istria)“, sostenuti da una retorica politica delle peggiori estremizzazioni della destra sovranista e da una tolleranza di una certa parte presuntamente democratica nel nome di una “obiettività” che altrimenti sarebbe oscurata dalla “partigianeria” e dall'”ideologismo“, sono la parte visibile di un fenomeno di messa in discussione dei fatti storici, ossia di quegli eventi accaduti che, in quanto tali, non dovrebbero e non potrebbero essere oggetto di dubbio.

Ci si può interrogare sulla ricostruzione delle ultime ore della fine di Mussolini, su cui si è favoleggiato così tanto per perpetuarne il mito, così come si è detto di Hitler che sarebbe fuggito a bordo di un sottomarino diretto prima nel Borneo e poi, non si sa bene come, nell’America del Sud.

Lustri e lustri di concessione di spazi all’alimentazione del dubbio malevolo e pernicioso su quanto ci era stato insegnato a scuola, hanno intaccato non tanto la memoria di noi quasi cinquantenni, bensì quella delle generazioni che sono ormai a corto di testimonianze dirette sulla Seconda guerra mondiale, sull’origine del criminale regime fascista, sulle deportazioni nei lager nazisti: del resto, il negazionismo è un malanno ricorrente nei secoli e non è figlio esclusivo del Novecento.

Ma gli accadimenti del secolo scorso si prestano particolarmente ad un revanchismo di questo tipo e permettono, soprattutto se le forze democratiche (ex comuniste) si agitano spasmodicamente nel presentarsi imbellettate alle nuove classi padronali mostrando, e dimostrando, di essere all’altezza dei ruoli di governo condividendo i valori interclassisti e quelli di un antifascismo poi non così dirimente per la vita del Paese.

Per essere considerati dalla moderna classe imprenditoriale, per godere del favore delle istituzioni economiche e finanziarie transnazionali, proprio gli ex comunisti sono stati i migliori alleati della rinascita del revisionismo storico: quante volte abbiamo citato, come origine modernissima di questa malapianta antistorica, l’equiparazione dei caduti partigiani con quelli della Repubblica di Salò? E’ forse l’esempio più fulgido di un “piano di rinascita democratica” anche in campo psuedo-culturale: la trasformazione del comune sentimento popolare antifascista, della relegazione del neofascismo a fenomeno marginale e comunque sempre da condannare, a variabile dipendente dalle nuove correnti di pensiero ispirate dalla fine dei blocchi contrapposti a livello mondiale.

La “morte delle ideologie“, teoria in voga soprattutto dopo il 1989, è divenuta il titolo epigrammatico di ogni canzonamento della verità storica raccontata come manipolazione degli antifascisti dal dopoguerra in poi. Certo non sono state di aiuto le mancate ricostruzioni storiche di alcuni drammi consumatisi nella guerra civile, come avviene endemicamente in ogni tipo di conflitto che contrappone una parte di uno stesso popolo ad una sua altra parte.

Ma le generazioni più giovani, quelle nate sul confine tra Novecento e Duemila, non hanno respirato il sentimento di oggettiva strutturazione sociale e politica dell’antifascismo come “religione civile” della Repubblica. Sul fine degli anni ’80, nel pieno sviluppo del berlusconismo nei successivi anni ’90, con la decomposizione dell’autorevolezza morale di una politica rappresentativa degna di questo nome, è proprio la fiducia nelle istituzioni che viene meno: corruzione diffusa, intrighi internazionali, speculazioni di ogni tipo, perversi intrecci tra affari pubblici e privati. Tutto tranne la traduzione del bene comune in fatti concreti, in riforme politiche riscontrabili da miglioramenti della vita sociale.

Il deterioramento dei diritti dei lavoratori, il consumarsi delle grandi organizzazioni di massa politiche, sindacali e culturali, ha aperto praterie enormi all’infiltrazione delle destre in una Italia sprovvista di quegli anticorpi necessari a parare il colpo della messa in discussione anche delle fondamenta morali e storiche del Paese.

Le riorganizzazioni di partiti fascisti sotto i nomi più curiosi ma, di certo, molto poco fantasiosi o l’infervoramento estremista di gruppi neonazisti, di millennials affascinati dall’uomo forte, dal duce, dal condottiero che esalta l’italianità scoperta dopo decenni di secessionismo padano, sono la conseguenza di una fase storico-contemporanea che somma tutti gli abusi della libertà di espressione che, proprio in questo nome, sono stati permessi, verso su cui si è usata una tolleranza che ha mortificato la Costituzione nella sua origine resistenziale.

Fenomeni di questa natura si combattono con una ripresa di politiche sociali che contrastino il disagio economico, che non gettino i più deboli, i moderni sottoproletari nelle braccia dei sovranisti dalla facile retorica del migrante nemico dell’autoctono, del “povero nemico del povero“, eliminando qualunque “ipotesi” di lotta fra le classi: la vera ragione delle disgrazie che subiamo, Covid o non Covid.

Si combattono altresì con una rialfabetizzazione di massa che non è cultura imposta, ma valutazione oggettiva sulla base del riscontro dei fatti, dell’intreccio tra le fonti, della indiscutibile validità del metodo di indagine e di studio storico: la soggettivizzazione dei grandi filoni di pensiero, favorita da una interpretazione esasperatamente singolare e fondata sul “sentito dire“, senza alcun riscontro propriamente detto, è il prodotto di un approccio sempre più lontano dalla verifica delle fonti e sempre più prostituitosi alla faciloneria della ripetizione acritica. I “social network“, in questo senso, vanno indagati come fenomeno tipico di un ulteriore deterioramento nel campo della diffusione di massa di opinioni che appaiono tali ma che, alla fine, sono aria fritta, falsi clamorosi: le cosiddette “fake news“.

Ne esistono milioni quotidianamente gettate in pasto alla bulimica voglia di consumo di notizie di ogni tipo, qui nell’oggi, e ne esistono altrettante per la storia che si vorrebbe ancora più facilmente manipolare e distrarre dal suo compito di maestra di vita. Già un secolo fa Antonio Gramsci ammoniva sulla mancanza degli scolari da parte della maestra illustre. A distanza di tanto tempo, nulla è migliorato, se non nel periodo della vita della nostra Repubblica in cui la voglia di libertà civile ha coinciso con la necessità del riscatto sociale.

MARCO SFERINI

24 gennaio 2021

foto: screenshot

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CronachePolitica e società

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