A chi la RAI? A noi!

Si dice, giustamente, che la RAI è la prima, la più grande e popolare fonte di informazione e di cultura del Paese. In quanto tale andrebbe preservata come un...

Si dice, giustamente, che la RAI è la prima, la più grande e popolare fonte di informazione e di cultura del Paese. In quanto tale andrebbe preservata come un bene comune, al pari di un monumento bimillenario come il Colosseo, similmente agli scavi di Pompei e allo stesso modo con cui si dovrebbe (qui il condizionale è praticamente d’obbligo) tutelare il territorio e il paesaggio artistico e naturale della nazione, secondo Costituzione, secondo buon senso, secondo buona amministrazione.

Nel corso degli ultimi decenni, ormai se ne possono contare già tre abbondanti, la Radiotelevisione Italiana è stata praticamente subordinata alle logiche del privato, alle prerogative del mercato e trasformata in una vera e propria azienda concorrente con gli altri gruppi che hanno sancito, di fatto e con il concorso delle riforme dei governi tanto di centrosinistra quanto di centrodestra, la fine del ruolo monopolistico della tv di Stato.

Ciò che aveva valore non era tanto l’esclusività della sola RAI di poter trasmettere su tutto il territorio italiano, televisivamente e radiofonicamente parlando. Ciò che premeva (e preme) a chi sosteneva (e sostiene) un profilo nettamente pubblico dei principali gangli e propaggini dello Stato, era la funzione plurale di un ente riconsiderato, dopo il fascismo e la seconda guerra mondiale, tra i garanti della libertà di apprendimento, di informazione e, quindi, di consolidamento della democrazia repubblicana.

Per quanto possa apparire distante oggi dalla filosofia di una RAI che pensa ai programmi (quasi) solamente in funzione dell’ascolto e, quindi, dell’accumulo di ingenti risorse pubblicitarie, per sostenere l’elefantiaco apparato cumulato, che è comunque un prezioso patrimonio collettivo, l’originalità della televisione di Stato dovrebbe continuare a risiedere nella differenza marcata con le reti commerciali.

Così le chiamavamo un tempo, proprio per distinguerle da una RAI che non trasmetteva pubblicità durante i film e gli spettacoli, che non interrompeva le emozioni e l’apprendimento. Almeno questo ultimo elemento è rimasto intatto: Rai Storia, Rai Scuola e Rai Yo Yo sono esenti dal trasmettere qualunque tipo di inserzione commerciale.

E’ un particolare non da poco che dovrebbe risaltare nella babele di bombardamenti che ogni giorno subiamo su ogni altra rete (RAI, Mediaset, Gruppo Cairo,, Sky, Discovery, ecc…) e che indirizzano le nostre scelte quotidiane in materia di consumo e di comportamenti conseguenti.

Capitolo non a parte, ma distinguibile dal resto, sono le cosiddette reti “all news”, importate da un modello americano di vera e propria bulimia informativa a tutto tondo. Nel senso non di una sempre aderenza ai fatti da parte dei cronisti e delle redazioni, che sono dirette da direttori lottizzati dalle forze politiche della maggioranza di turno (vale per la RAI), o rispondenti ai grandi gruppi editoriali assorbiti dai magnati di tanti altri interessi privati (bancari, finanziari, commerciali, industriali, ecc.).

Semmai di una totalizzazione dell’informazione, di una rincorsa all’immediatezza che è utile per la presa diretta di ciò che accade, che lo sarà in futuro per chi vorrà studiare quanto abbiamo vissuto in questi decenni di capitalismo sfrenatamente liberista, ma che è una occupazione indebita delle nostre menti e che ci costringe ad una velocità di valutazione che impedisce di approfondire, di conoscere meglio le circostanze e che, unitamente allo smodatissimo uso di Internet, è una delle leve più utili alla manipolazione dei concetti e della realtà oggettiva degli accadimenti.

La facilità con cui si distorcono i fatti oggi è pari a quella informazione che informa non noi, ma prima di tutto i fatti stessi e li trasforma in altro da quello che veramente sono.

C’è una soggettivizzazione della comunicazione che è altamente dispersiva e che, magari anche involontariamente (ma davvero in rare occasioni), passivizza le menti e le rende non-protagoniste di una elaborazione critica, ma recettrici di messaggi già precofenzionati da una propaganda che viene spacciata per libertà di espressione.

Si intende: questa stigmatizzazione della gestione dell’informazione e della trasmissione della cultura nel nostro Paese attraverso la televisione e Internet (nonché la cara vecchia radio), è un principio di critica generale, che trasversalizza la discussione proprio perché si riferisce ad un arco di tempo vasto, in cui la RAI è stata in pratica astratta dal suo contesto originario e fatta diventare una grande azienda sempre meno pubblica, sempre meno autonoma e indipendente, sempre più rispondente a qualcosa di diverso (e per questo di più nocivo) della lottizzazione che conoscevamo ai tempi del Pentapartito.

Oggi al RAI è uno dei primi campi di battaglia di una politica spregiudicata, dove non si rispetta nemmeno più la istituzionale cortesia (si fa per dire…) tra maggioranza ed opposizione: per cui Rai Uno e Rai Due andavano alla maggioranza democristiana e socialista, mentre Rai Tre all’opposizione comunista.

Ovvio, i mutamenti prima di tutto sociali, economici e poi politici e amministrativi hanno obbedito alle regole di un mercato che ha liberalizzato qualunque cosa ed espropriamo la televisione pubblica proprio della sua corrispondenza col concetto di bene comune.

Caso mai lo sia veramente stata, la televisione italiana come architrave della democrazia, oggi l’attacco che le viene portato supera la logica lottizzante della DC, del PSI ed anche del PCI.

La destra intende riscattare la sua subalternità culturale ad un mezzo secolo e più di inadeguatezza ideologica, contrastante con i valori fondanti la Repubblica, mettendo in campo una offensiva revisionsita su molteplici piani: da quello prettamente storico a quello dei diritti civili; dai quello dei rapporti di lavoro alla narrazione sull’ambiente e le grandi opere.

La destra fascista e post-fascista, per non parlare di quella neo-fascista del nuovo millennio, dei dodici raggi e di altri revanchismi dal sapore pure neonazista, ha vissuto nel dopoguerra, ed in misura minore nel ventennio berlusconiano, un giusto e perfettamente percepito complesso di inferiorità: prima di tutto morale e, quindi, anche politico e culturale nel pieno senso del termine.

La sconfitta morale, civile, politica e infine storica del fascismo è la damnatio memoriae di una destra moderna che, pur passando per Fiuggi e per altri pseudo lavacri purificatori e rigeneranti, non riesce ancora oggi a fare i conti con i germi del totalitarismo, con l’origine stessa del movimento mussoliniano, con le conseguenze postbelliche e i tentativi di restaurare un ordinamento autoritario in Italia pur mantenendo le sembianze democratiche della Repubblica nata dalla Resistenza.

Diversamente dai tentativi di colpi di Stato dei neofascisti degli anni ’60 e ’70, unitamente ai piani eversivi della P2 sostenuti oltreocenano, ed anche diversamente da “Gladio” e da altri progetti di contenimento della possibile avanzata comunista verso il governo del Paese, la destra di oggi è conformista nel presentarsi come piacevolmente sedotta dalla democrazia e dall’istiuzionalismo che vi si informa, ed è innovativamente reazionaria nell’aggiornare il vecchio armamentario del trittico “dio – patria – famiglia” a seconda dei tempi in cui si vive.

Le posizioni antistoriche di La Russa, quelle xenofobe di buona parte del governo, quelle vandeane in materia di rapporti genitori – figli e di procreazione della ministra Roccella sono alcuni esempi dell’aggiornamento inculturale della destra presuntamente moderna e che si uniscono al modello gestionale che l’esecutivo ha per la RAI e per le altre aziende pubbliche (o a partecipazione pubblica) dello Stato.

Da questo modello è esclusa una condivisone lottizzatrice degli spazi, che pure sarebbe di per sé una violenza ai dettami pluralistici della Costituzione, ma cui eravamo abituati come il massimo del minimo raggiungibile in materia di democrazia dell’informazione e della cultura nella vecchia “prima repubblica“.

Qui ed ora la maggioranza fa cappotto, prende tutto, non lascia nessuna casella libera per una discrezionalità di controllo, di verifica, di tutela dell’interesse altro da quello che intende portare avanti.

Non basta la legittimazione del voto per potersi mettere alla testa di un processo di occupazione dello Stato. Per quanto la maggioranza sia avvalorata dalla distorta volontà popolare, costruita con vergognose leggi elettorali che avvantaggiano i più forti e indeboliscono i più deboli, rimane sempre e comunque una maggioranza relativa, di quasi meno della metà del corpo elettorale per intero.

E, comunque, anche in presenza di una maggioranza bulgara, i contrappesi per una difesa della ragione democratica e della condivisione degli spazi, della vita politica, sociale e culturale del Paese andrebbero sempre intesi come imprescindibili e necessari.

Se la maggioranza pensa di poter fare tutto quello che le garba solo perché è arrivata al potere, e quindi prendersi la RAI e trasformarla in una innocua concorrente degli altri gruppi televisivi, preservati dalla concorrenza con la mamma della tv italiana, oltretutto addomesticandola ad un revisionismo multistrato, alla fine sarà la qualità dell’informazione a risentirne.

E così pure ogni altro programma che prima, oltre a tentare di barcamenarsi in una par condicio almeno formale (visto che forze come Rifondazione Comunista o Unione Popolare, fuori dal Parlamento, sono sempre state poco prese in considerazione da qualunque pluralismo dell’informazione…), provava a differenziarsi da una cagnara di dibattiti urlanti, il cui unico scopo è esacerbare gli animi e anestetizzare le coscienze.

La Legge Mammì prima e la riforma di Renzi poi hanno, di certo corroborate dagli editti ostracizzanti di Berlusconi e dalle sistematiche violenze fatte alla RAI tanto prima quanto dopo il lungo periodo del potere arcoriano, inaugurato e portato avanti una estenuante era di stravolgimento del servizio pubblico.

Rimpiangevamo il maestro Manzi, il Dipartimento Scuola Educazione ed anche i programmi fatti con lo stile dei professionisti: vecchi dorotei o socialisti craxiani che, oggi, al confronto di quelli che verranno, paiono dei galantuomini dell’etere. Forse il governo Meloni non farà peggio dei suoi predecessori, ma qualche sospetto in merito è consentito, se il buongiorno si vede sempre dal mattino…

MARCO SFERINI

26 maggio 2023

foto: screenshot

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