28 ottobre 1922: il colpo di Stato ampiamente sottovalutato

Dalla marcia su Roma a piazzale Loreto non è un attimo, anche se il Novecento è il “secolo breve“. Più di vent’anni, quasi venticinque se si considerano anche gli...

Dalla marcia su Roma a piazzale Loreto non è un attimo, anche se il Novecento è il “secolo breve“.

Più di vent’anni, quasi venticinque se si considerano anche gli antefatti del movumento fascista e le conseguenze della fine della guerra. In mezzo c’è la trasformazione primitivamente radicale di un Paese che è proiettato nella bidimensionalità temporale e immaginifica di una romanità da rivivere e far rivivere dai “colli fatali” dell’Urbe, rinverdeggiando il mito di Augusto come figlio di dio, come quell’uno che valeva tutto e non solo sé stesso.

Mussolini è, a piedi, a cavallo, sugli aerei e sulle navi, sui trattori e sui carri armati, il novello Cesare. Anche se con il Divo Giulio ha ben poco da spartire: la dittatura perpetua è la pietra di inciampo in cui il nuovo padre della patria romana incappa quando pensa di poter fare imporre riforme tali da mettere da parte l’oligarchico potere senatorio della gens aristocratica, ledendo le tradizioni, portando Roma da res publica alle soglie del principato.

Mussolini e i quadrumviri decidono nel 1922 che è l’ora di dare la spallata alla debilitata democrazia liberale.

La prima ora delle decisioni irrevocabili arriva proprio per la debolezza delle istituzioni, della vecchia classe dirigente, dell’intero impianto burocratico che reggeva un regno non ancora del tutto unificato nella sua conformazione geo-antropologica. Gli italiani bisogna continuare a farli, perché, dal Risorgimento al primo dopoguerra, ciò che li ha fatti sentire uniti è soltanto la contrarietà verso il nemico e non la solidarietà reciproca interna e interregionale.

L’amor di patria è alimentato dal conflitto, dal nemico alle porte, dalla frontiera minacciata. Mussolini e il suo partito sono la quinta essenza di un futurismo bellicista che è anche repubblicano, che osteggia la monarchia dei Savoia e che ha pessimi rapporti con la Chiesa cattolica. Non parliamo poi delle altre forze politiche, in particolare socialisti e comunisti: non fosse altro che per rivalsa personale, il futuro duce inizia la sua narrazione nel 1919 proprio dall’avversione nei confronti del bolscevismo.

La marcia su Roma, che deve avere i connotati della “rivoluzione italiana” viene preparata parallelamente ad una soluzione “legale” per la presa del potere da parte dei fascisti. Nei mesi che precedono la calata delle camicie nere verso la capitale, non viene mai esclusa l’ipotesi di un accordo con Giolitti e Salandra per arrivare ad equilibrio intersettoriale tra i poteri: dalla corona alla grande borghesia.

Ma la fanatizzazione dei quadri del PNF avrà il suo ineludibile ruolo nella decisione di marciare su Roma per imporsi come nuovo status politico, come nuova soluzione dell’ordine e della pacificazione nazionale e del ristabilimento delle regole. Quali, poi, saranno loro a deciderle, mediando con sé stessi nella prima parte del colpo di Stato. La monarchia viene lasciata in disparte, tenuta a latere, non considerata un avversario tanto quanto lo sono le forze parlamentari, quelle sindacali e quelle cultural-sociali.

C’è bisogno di Vittorio Emanuele III se si vuole arrivare al governo dell’Italia e, così, si sfruttano tutte le contraddizioni possibili per accelerare un assenso anche tacito del sovrano all’arrivo della marmaglia fascista nella capitale. Da molto tempo le squadracce di Mussolini imperversano in tutta Italia: bruciano, devastano le case del popolo, le sedi delle organizzazioni di categoria dei lavoratori, eppure si dicono movimento vicino alle istanze sociali.

Dispensano bastonate e botte tanto ai militanti di base dei partiti operai quanto ai loro dirigenti. I morti si contano a centinaia dal 1919 alla data della marcia su Roma: forse la prima vittima, di cui si ha una contezza storica verificabile, è un’operaia milanese, Teresa Galli, che il 15 aprile di quell’anno sta sfilando con un corteo anarchico. L’incrocio con una colonna di fascisti e futuristi è fatale.

L’Italia del 1922 vorrebbe una normalizzazione, la fine delle violenze. La monarchia vorrebbe più garanzie sul suo futuro e gli industriali altrettanto sul terreno ovviamente economico e finanziario.

Ce n’è abbastanza per pensare di allontanare dallo spettro dell’immediato futuro una guerra civile: più di tutto, i padroni e il re temono la reazione dei “rossi“. L’immagine vivida dell’occupazione delle fabbriche, del biennio operaio e la crescente potenza sovietica ad est, oltre ai tumulti scatenatisi in mezza Europa dopo la fine della guerra, sono sufficienti a cedere.

A cedere il potere ad un movimento che, ingannandosi, credono – primo fra tutti Giolitti, che non è esattamente uno sprovveduto, politicamente parlando – di poter controllare parlamentarmente, gestire istituzionalmente e condizionare con le ingenti risorse confindustriali, del mondo degli agrari, di quello della media borghesia sia settentrionale sia romana.

Alla fine il re si rifiuterà di firmare lo stato d’assedio della capitale, propostogli dal Presidente del Consiglio Facta, e permetterà ai fascisti di arrivare al potere con un tratto bivalente: rivoluzionario – golpista da un lato e legalitario dall’altro. L’opportunismo della corona sarà spesso ricordato dai biografi agiografici dei Savoia come un chiaro tratto distintivo di lungimiranza nel disporre in quel momento ciò che pareva essere la migliore tutela del bene della nazione.

Si rivelerà, invece, uno degli errori più clamorosi tanto della monarchia quanto delle forze politiche liberali che ritennero di poter fronteggiare quell’estremismo violento, quella prevaricazione mussoliniana che tuonò davanti a 40.000 fascisti riuniti a Napoli: «O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma». Proprio come i barbari.

L’Ordine nuovo” gramsciano, a proposito della giornata epocale, di quella marcia che solo i quadrumviri avevano guidato, lasciando Mussolini nella penombra delle trattative istituzionali (chissà quanto vere, chissà quanto finte…) ne scrisse con acume, titolando: “La farsa è finita“, adducendo un tratto simbolico all’evento, non sottovalutandone la portata ma concludendo l’editoriale con un troppo precipitoso, e forse autoconvincente, giudizio su un fascismo che stava avviandosi verso una fase di debolezza strutturale.

E’ probabile che l’istituzionalizzazione del movimento fascista spingesse a considerare tutti i lacci e lacciuoli a cui si sarebbe dovuto legare per gestire il potere, lasciando credere che sarebbe stato in qualche modo frenato nella sua dismisura, nei suoi eccessi e nella sua carica potenziale di rappresentanza tanto delle classi sociali più deboli, del proletariato scontento e sempre più impoverito dalla lunga scia del pauperismo post-bellico, quando della borghesia padronale.

Il fascismo sarà, invece, il più grande evento dissimulatorio del Novecento italiano: come il nazionalsocialismo che lo seguirà nella Germania della crisi di Weimar, sarà un totalitarismo di menzogne a sorreggere un potere tutto da stabilizzare, da costruire fin nei gangli più reconditi del precario Stato italiano ormai sempre più post-liberale e post-democratico.

Piccoli gruppi di industriali e grandi masse di sfruttati crederanno allo stesso tempo di avere a che fare con un qualsiasi episodio della vita politica nazionale, accantonabile al primo fallimento conclamato. Bisogna riscriverlo: dalla marcia su Roma a piazzale Loreto non è un attimo.

Sono venti e più lunghissimi anni ed è più di una generazione di italiani che ha assistito alla trasformazione della propria vita in una adesione forzata ad idee, comportamenti e politiche senza la possibilità di manifestare una qualsiasi critica in merito. Senza avere, quindi, la libertà di pensare, agire e mettere in pratica le proprie peculiarità.

Ogni paragone con l’oggi, più che azzardato, rischia di essere improprio tanto per il passato quanto per il presente e di stabilire una sorta di continuità temporale che non ha un preciso significato storico e nemmeno attualistico. La memoria di quel regime criminale, che portò l’Italia alla distruzione materiale e morale, la si esercita nel migliore dei modi avendo piena consapevolezza di ciò che fu, giorno per giorno, anno per anno, la solidifazione del movimento prima e del partito poi di Benito Mussolini.

Se non è possibile per i giovani di oggi, ed anche per le generazioni intermedie, testare una cognizione in prima o per interposta persona, poiché il tempo fa il suo corso e le testimonianze dirette sono sempre meno, è però possibile per il mondo della cultura, della storia e della politica essere i custodi di una verità dei fatti che, soprattutto dopo il 25 settembre, dopo un voto che riporta i post-fascisti al governo del Paese, sarà sotto l’attacco del revisionismo da un lato e del riduzionismo delle colpe e delle responsabilità dall’altro.

La marcia su Roma, così come ogni altro atto compiuto dal fascismo, così come il fascismo mussoliniano, non può riproporsi in quanto tale, molto semplicemente perché ogni accadimento è specifico e simile solo a sé stesso. Ma i suoi dettami, dal nazionalismo esasperato alle differenze e alle minoranze vissute come fastidiosi accidenti da delimitare e costringere, da segregare e sottomettere alla volontà della maggioranza, possono riproporsi in forme differenti. Anche oggi, in particolare quando ci affidiamo alla presuntuosa certezza di una protezione che deriverebbe da una modernità incancellabile.

Nel processo dialettico del cammino (dis)umano nulla è per sempre, perché è tutto un fluire e un trasformarsi. La Storia si ripete. Eccome se si ripete. Ma, per fortuna (o anche per disgrazia), non è mai uguale a sé stessa. Né un attimo prima del presente e né un attimo dopo nel futuro.

Perché la Repubblica, nonostante il governo Meloni, resti democratica, parlamentare e antifascista, dobbiamo utilizzare tutti quegli attrezzi che ci derivano dall’esperienza quotidiana e dalla conoscenza di un passato che non passa. E forse, nella migliore interpretazione di questa locuzione, è meglio che sia così. Pensare che non esista più alcun rischio di torsioni autoritarie renderebbe ancora più vulnerabile la democrazia italiana, così poco partecipata, così lontana dai cittadini, così lasciata a sé stessa dopo essere stata usata e sfruttata da chi avrebbe invece dovuto proteggerla.

MARCO SFERINI

28 ottobre 2022

foto: screenshot

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