Il paradigma del Territorio Esequibo nelle dinamiche liberiste

Fernand Braudel scrive nella sua opera “Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII)” (edita in Italia da Einaudi) che nelle scienze sociali rimane insuperabile, per tutto il corso del Novecento,...

Fernand Braudel scrive nella sua opera “Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII)” (edita in Italia da Einaudi) che nelle scienze sociali rimane insuperabile, per tutto il corso del Novecento, l’apporto che Marx ha dato all’analisi minuta dei rapporti economici, di produzione e di socializzazione che la fase capitalistica moderna ha sviluppato immediatamente dopo il suo estendersi all’intero continente europeo, alle Americhe e all’Asia.

La decostruzione della narrazione borghese sulle magnifiche sorti e progressive del sistema delle merci e dei profitti, dello sfruttamento della forza-lavoro e dell’accumulazione indiscriminata di risorse, sottratte all’arricchimento comune, dell’intera società, non è stato un mero esercizio dialettico affidato ad una sorta di retorica politica.

Semmai proprio il contrario. Partendo da presupposti di giustizia sociale, Marx ed Engels arrivano a riformulare e riteorizzare un insieme critico che parte dalla oggettività dei dati, dallo studio del metodo produttivo, di un intero sistema di relazioni che esigono una reciprocità di funzioni supportate da quella che viene chiamata la “sovrastruttura” ideologica.

Il capitalismo liberista di oggi non si sottrae a questa analisi dettagliata che, per quanto sia stata affinata nel dopo-Marx, conserva ancora oggi quella sua validità insuperata, perché i problemi che il sistema continua a generare sono dettati dalle contraddizioni che non può oltrepassare senza mettersi in discussione completamente, senza negare sé stesso, senza dichiararsi “il problema” per antonomasia di una umanità in cui la forbice tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati non può che aumentare.

Braudel propone una interessante interpretazione a riguardo, per cui il capitalismo sarebbe, più che una sistematizzazione (anti)sociale prodotta dall’ideologismo, un vero e proprio mutamento epocale determinato da una serie di confronti del potere contro il potere, di poteri che si scontrano e, a volte trovano delle convergenze e si alleano, altre volte lottano fino all’annientamento dell’uno e alla prevalenza del competitore.

L’aspetto che lo storico francese vuole evidenziare è il carattere monopolistico del moderno capitalismo; un tratto non certo nuovo nell’analisi che se è venuta facendo nel corso dei secoli, ma indubbiamente sottostimato, forse anche sottovalutato, se si pensa che, almeno fino ad allora, quindi fino alla metà del secolo scorso, era abbastanza in voga la tesi secondo cui i capitalisti fossero più che altro dei liberi imprenditori guidati dalla superiorità quasi morale del regime concorrenziale.

Si è corso il rischio di finire tra le grinfie di una mitologica rappresentazione dei rapporti economici come un qualcosa di astrattamente metafisico, sganciati dal quadro complessivo dei confronti tra i poteri industriali dei vari continenti, tra i poli capitalistici che si andavano via via formando e che, ad esempio con lo scoppio delle guerre mondiali, trovavano incentivi di nuovo sviluppo produttivo e di enorme modificazione delle ragioni, degli scopi e degli obiettivi della produzione stessa.

Tanto è vera questa analisi braudeliana che gira attorno al carattere fortemente monopolistico del capitale, che persino oggi, in quella espressione del tutto nuova che è l’aggressiva accentuazione liberista, ma che origina dagli anni ’70 di un Novecento terminato con una fase sviluppista, dettata dal riflusso in Europa e in America dell’ipersfruttamento neocoloniale del secondo dopoguerra, troviamo esempi che la confermano.

Pochi giorni fa, in Venezuela, si è tenuto un referendum articolato in cinque domande che chiedevano alla popolazione se fosse giusto, necessario, utile e doveroso che l’antica regione dell’Esequibo, sottratta al paese bolivariano dalla Gran Bretagna nel 1899 e assegnata alla attuale Guyana, tornasse alla madrepatria. Il responso, come era abbastanza ovvio che avvenisse, ha assegnato all’affermazione di tutti i quesiti delle percentuali più che bulgare (dal 95 al 98%).

Questo prevedibile risultato referendario potrebbe, in parte, sminuire il suo stesso valore, visto che è abbastanza scontato che, se chiedi al popolo se vuole una fetta di terra in più per la sua nazione, questo risponda oggettivamente di sì, non fosse altro per vanagloria e per senso di rivalsa tanto attuale quanto storicamente repressa nel corso del tempo.

Ma, a ben vedere, le ragioni di tanto interesse per una fascia di terra grande quanto e più di paesi europei come la Grecia, quindi non certo trascurabili per dimensioni, non sono affatto legate ad un revanchismo anticolonialista della vecchia America Latina.

Semmai, insieme alla preservazione di un importante parte di polmone verde del nuovo mondo e dell’intero continente, alle sue culture indigene, al rapporto stretto che lega queste popolazioni con una tutt’altro che primitiva empatia con la terra e con ogni sua caratteristica, si riscontrano ragioni di natura (ovviamente) economica.

Da una ventina di anni a questa parte, proprio quel capitalismo monopolistico di cui si parlava all’inizio, ha messo le mani sull’Esequibo, scoprendo in esso importantissimi giacimenti di oro, diamanti, bauxite, manganese e uranio. Nonché, nemmeno a dirlo, di petrolio. La ExxonMobil è al centro di questa disputa tra due Stati che si contendono un territorio dove gli interessi sono, pertanto, enormi e non sono, ergo, solamente geopolitici.

La grande industria è un po’ sempre stata volutamente poco attenta ai problemi tanto ideologici quanto pratici dell’alienazione. Ha fatto i suoi interessi passando sopra ogni cosa, sopra ogni diritto tanto dei singoli quanto di intere popolazioni. Del resto, la predazione del capitalismo monopolistico è proprio questa: il disinteresse nei confronti di qualunque ragione sociale, politico-amministrativa, comunitaria o statale che sia.

Così la regione dell’Esequibo, così chiamata dal fiume omonimo che faceva da confine un tempo tra Venezuela e Guyana, salta all’onore delle cronache internazionali perché il problema della contesa storica finisce oggi per essere, più che una questione di appartenenza etnica, un problema di natura squisitamente economica, un rovello inestricabile di interessi tanto legali quanto illegali.

Ammesso che la legalità possa essere individuata in una sorta di diritto internazionale che tuteli ancora le prerogative almeno degli autoctoni.

Siamo nuovamente in presenza di un esempio lampante di condizionamento totalizzante da parte del capitale nei confronti della società: la trasformazione di entrambi è vincolata a processi di mutamento che, come unico scopo finale, hanno la valorizzazione non dell’interesse collettivo, del benessere comune, ma solo ed esclusivamente del capitale, della finanza, dell’accumulazione dei profitti, della possibilità per le grandi imprese di essere “concorrenziali” sul mercato.

Accanto all’esempio della disputa sulla “Zona en reclamacíon” della Guayana esequiba, se ne potrebbero mettere tanti altri: ogni guerra combattuta nel corso degli ultimi secoli è un atto di prepotenza imperialista, è una fase del capitalismo che – come Lenin aveva argutamente sottolineato nei suoi scritti, e non meno aveva fatto Rosa Luxemburg nel descrivere il moderno espansionismo coloniale in Africa (e non solo) – si esprime compiutamente attraverso un veloce rivolgimento degli avvenimenti mediante il conflitto armato.

Braudel, discostandosi parzialmente tanto da Smith quanto da Marx, sostiene un ruolo dello Stato in queste faccende che tutela, protegge, privilegia questo carattere monopolistico del capitale.

Più che un garante di quella che viene definita dalle scuole liberali come la “libera concorrenza” tra le economie, tra le strutture rappresentate dai conglomerati produttivi e dai loro rapporti prima nazionali e poi globali, il potere statale è guardiano del consolidamento delle immense fortune accumulate.

E’, in sostanza, la sentinella sovrastrutturale di un regime tanto stabile quanto in continuo rivolgimento, mutazione, cambiamento incessante. La teorizzazione utilitaristica di Bentham sembra qui trovare un ulteriore espansione moderna: riprendendo parzialmente la disamina smithiana, il tipo di razionalizzazione delle istituzioni e del diritto di Stato che qui si porta avanti è la propensione ad essere indirizzo quasi etico-sociale, il principio della conformazione di un popolo ad una nuova etica giuridico-politica.

Se il massimo della felicità deve poter riguardare il maggior numero di persone, di cittadini, è anche vero che – come sostiene Bentham – una qualche forma di disuguaglianza deve poter essere accettata e (addirittura) sostenuta se si presuppone uno sviluppo non predeterminato dell’economia politica, del moderno capitalismo imprenditoriale.

La mano invisibile del mercato qui trova un alleato nella necessità di sostenere uno sforzo collettivo, per un bene universale che presupponga un livello parziale di uguaglianza sociale. Nulla deve contravvenire questo modello di evoluzione e, anzi, la teoria benthiana presuppone addirittura che la legislazione possa prevedere limitazioni della libertà nel nome di tutto ciò, di una specie di grado superiore di benessere che, tuttavia, riguarda comunque soltanto una parte minoritaria dell’intera società.

La Legge in quanto tale è, per sua stessa natura, diseguale, perché non può in una società fatta di classi che si contrappongono o che, comunque, sono in lotta fra loro per l’egemonia dell’una sull’altra, diventare il punto di caduta dell’uguaglianza strutturale, essendo essa stessa un prodotto della struttura economica e, dunque, soggetta a qualunque mutamento venga dal contesto che, alla fine, la determina.

Sembrerebbe, viste queste osservazioni, che ogni lotta sociale sia apparentemente inutile, che finisca con lo scontrarsi con una ineluttabilità irreprensibile, un muro di gomma rappresentato dal capitale che non permette a niente e nessuno di essere attore, soggetto, protagonista o anche solo comparsa di una scenografia del cambiamento sociale, politico, civile e morale.

Ma, per la lunga esperienza che ormai abbiamo di quanto avvenuto nel corso degli ultimi due secoli, siamo consapevoli che il sistema non è impermeabile ai contraccolpi delle lotte, perché sovrastruttura e struttura si influenzano a vicenda, perché, proprio come emerge dagli studi naturalistici, tutto in natura è un insieme di relazioni, di scambi, di arricchimenti a volte, di manchevolezze altre. Nulla si sottrae a questo processo altamente dialettico.

Nemmeno il capitalismo può essere esente da questa influenza plurale, molteplice che finisce con l’essere quindi un vero e proprio “dato storico“. Se vogliamo, è una legge dello sviluppo umano, perché il mutamento è intrinseco alla natura in quanto tale e, siccome noi ne facciamo parte, noi siamo dentro questo cambiamento senza soluzione di continuità alcuna.

Il capitale, di per sé, continuerà a resistere ad ogni tentativo di cambiamento sociale, perché condiscendervi vorrebbe dire tradire la propria natura di regime dello sfruttamento della maggioranza a vantaggio di una sempre più esigua minoranza di grandi proprietari, di enormi accumulatori di risorse, misura del vero sviluppo diseguale tra est ed ovest, tra nord e sud del mondo.

Lo riconoscono un po’ tutti gli economisti liberali, vantando in questa maniera una oggettività dei fatti che, quindi, sarebbe il fondamento della naturalità del sistema, della sua aderenza con una realtà tutt’altro che contraddittoria: è sufficiente fare dei diritti sociali e civili una variabile dipendente dell’economia liberista per essere al riparo da problemi tanto pratici quanto etici, di quella coscienza che non c’entra nulla con le limitazioni degli eccessi del mercato.

Ma basta guardare al caso dell’Esequibo per avere contezza del fatto che le contraddizioni travalico la sfera economica o, quanto meno, si espandono proprio in virtù della complicazione dei fattori molteplici di cui oggi si compone una società globale che non può più autoregolamentarsi su tempi lungi, ma fare fronte al massimo a singole increspature che rispondo a processi di cambiamento irrefrenabili.

Il mutamento climatico sovrasta la capacità di autonomia e di autogestione del capitale, lo costringe a ripensarsi e permette ad un filone critico nei confronti dello sviluppo diseguale liberista di affermarsi con ragioni che, precedentemente, erano liquidate con la semplicioneria del pragmatismo economico a fronte dell’utopismo idealistico socialisteggiante.

Toccherà alla natura fermare il capitalismo? Se sarà così, la sconfitta del cammino umano verso un futuro di uguaglianza sociale e civile, verso una sostenibilità tra lavoro ed ambiente, sarà, a quel punto, già un ricordo del passato.

MARCO SFERINI

5 dicembre 2023

foto: screenshot

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