Da Auschwitz alla Città della Pace: la vita della memoria

Ipnotizzante. L’avverbio descrive, un po’ eufemisticamente, l’atmosfera che si crea mentre Liliana Segre parla al popolo dei giovani della Cittadella della Pace: un esperimento di grande integrazione e scambio...

Ipnotizzante. L’avverbio descrive, un po’ eufemisticamente, l’atmosfera che si crea mentre Liliana Segre parla al popolo dei giovani della Cittadella della Pace: un esperimento di grande integrazione e scambio culturale, sociale, persino antropologico. Mettere insieme chi proviene da teatri di guerra, di conflitti secolari, di antitesi storiche proiettate nel presente e rinnovate con nuovi omicidi di massa, per creare quello scambio empatico, quella umanità che manca nel mondo reale.

Un palestinese ed un israeliano, un kosovaro e un serbo, un russo e un ceceno, magari anche un antisemita e un ebreo. Scavare abnormemente dentro le false coscienze di ciascuno per interrompere l’incomprensione, il non detto, il fraseggiato, il sussurato: quella calunnia che è un venticello e che si sparge nell’aere con grande facilità e fa danni e guasti incalcolabili.

Lo scopo della Cittadella della Pace è questo, ma non solo. E’ l’istruzione, la conoscenza, la coltivazione della memoria non fine a sé stessa ma come metodo di collaborazione tra le generazioni, senza distinzione alcuna eppure valorizzando ogni singola specificità di origine: tanto importante è la differenza da annullarsi nel confronto; tanto è importante il confronto da esaltare ogni differenza nella reciproca riconoscenza, intesa anche come “riconoscimento“, come l’accorgersi dell’esistenza dell’altro rispetto all’univocità di sé stessi.

Ed ecco che riconoscenza sussume in sé due interpretazioni che divengono fondamentali per la vita di ciascuna e che, simbioticamente, formano una unità perfetta: essere grati vicendevolmente dell’accorgersi delle differenze e, per questo, contemplare l’esistenza dell’altro fuori da ogni schema e pregiudizio ma solo nel rapporto sociale che si crea nel momento in cui due esseri umani si confrontano, si parlano, si raccontano e si conoscono sempre di più.

Fino a capire che non vi è davvero muro invalicabile tra i popoli della terra e che prima di essere popoli siamo esseri umani, una curiosa e complicata evoluzione della materia di cui è fatto l’universo: tutti i minimalismi, che fanno parte del micromondo terrestre sono una conseguenza e sono, spinti dagli egoismi che nascono attraverso la voglia di potere e dominio, tra le origini delle ingiustizie millenarie.

La formazione delle classi sociali, del resto, prende vita nel momento in cui nasce la divisione del lavoro e questa nasce quando si scopre la possibilità di scambiare un sovraprodotto sociale: quando abbiamo di più di ciò che possiamo consumare, ecco che questo salto di qualità economico produce tutte le più perverse azioni per dominare, per porsi alla testa della difesa del privilegio e del profitto che ne deriva.

Liliana Segre sceglie la Cittadella della Pace per finire i suoi tre decenni di insegnamento della memoria attraverso il racconto della sua deportazione ad Auschwitz. Ipnotizza senza far perdere la lucidità. La catalizza, la rende magnetica con una prosa linguistica che è insieme racconto personale, lezione storica e ammonimento morale, civile e sociale.

La bambina tredicenne che lascia la mano del padre la si vede nitidamente nel lager nazista, perché è scolpita nelle tante immagini di granito che hanno dei tratti dolci, nonostante siano posate sul cammino dove stanno tutte le lapidi degli ebrei andati alle camere a gas, uccisi a milioni insieme ad omosessuali, prigionieri politici, rom, sinti, caminanti, Testimoni di Geova, apolidi…  La via dell’inferno anche qui è lastricata di quelle buone intenzioni ipocrite, che tentano di mostrare a chi arriva nei carri merci piombati una realtà che non è. La prima domanda che Liliana Segre si pone, bambina, appena scesa dalla prigionia nel treno, sempre stretta al padre, è: «Ma che cos’è questo posto?».

Noi lo diamo per scontato oggi, ma chi arrivava in un lager nazista, dopo essere stato strappato dalla propria casa, dal proprio paese, dai propri cari, spinto a bastonate su un treno e fatto scendere nel mezzo di uno spiazzo con file di baracche, cani rabbiosi addestrati ad uccidere, SS a guardia del perimetro circondato dal filo spinato, è probabile che si sia storditamente un attimo guardato intorno e si sia fatto la domanda che la senatrice Segre, appena tredicenne, s’è fatta nella mente in quel momento.

La vista ha dato un primo sguardo a quanto poteva e ha consegnato alla mente di Liliana quell’interrogativo. Ma prima ancora arrivano i suoni. Prima ancora che lo sguardo: del resto, nel ventre materno, la creatura che deve nascere percepisce prima la sonorità di ciò che la circonda e solo dopo essere venuta al mondo, dopo molti giorni, aprirà bene gli occhietti per scrutare tutto quello che la circonda.

I suoni, anzi i rumori. Le grida, la babele di lingue: francesi, ungheresi, serbi, olandesi, italiani, polacchi… C’è mezza Europa ad Auschwitz. Nel nome della purezza della razza ariana, lì si crea una sorta di cosmopolitismo dell’orrore, frutto di un calcolo premeditato di quelle persone “perbene” che Liliana Segre conoscerà dalla Storia molto tempo dopo. Come la maggior parte degli europei e del mondo, del resto.

Mentre suo padre le lascia la mano, spinto via da lei verso un’altra fila, Liliana lo saluta con brevi cenni. Pensa che lo rivedrà e invece così non sarà. Ma in quel momento non lo sa e continuerà a non saperlo anche dopo che le prigioniere francesi della sua baracca parleranno delle camere a gas, della cremazione di tutti i cadaveri e dei camini.

Andando a lavorare ogni mattina, come operaia-schiava, è sopravvissuta nel chiaroscuro della freddezza gelida della neve che rifletteva la luce di un sole oscurato dalla nube dei crematori privandosi del tempo, estraniandosi ogni volta che era possibile: «Lavoravamo tutto il giorno, ma non sapevamo quando avremmo finito. Non avevano alcun orologio con noi».

Gli orologi, gli occhiali, le borse, le scarpe, tutti gli indumenti erano nei magazzini di smistamento dei lager. Ai deportati venivano tolti tutti i denti d’oro, le collane, gli anelli, i braccialetti. Tutto diventava di proprietà del Terzo Reich.

Liliana Segre lo ripete spesso: «Eravamo divenute orribili» di aspetto. Irriconoscibili rispetto anche soltanto a pochi mesi prima. Abbruttite esternamente e rese sempre più simili a ciò che i nazisti volevano che fossero: nemiche e nemici gli uni verso gli altri. Un individualismo egoistico esasperato dalla necessità della sopravvivenza che, tuttavia, per quanto potente possa erigersi innanzi alla ancestrale bontà di ciascuno, non riusciva ad annullare completamente la vergogna per la trasformazione in atto.

Il ricordo di Jeanine è centrale – così lo definisce la senatrice – nella storia di quegli anni: una ragazza francese così bella, voce dolce, con occhi celesti, molto graziosa. Una ragazza che la Liliana bambina vede ogni giorno perché è addetta ad un lavoro che le permette di incontrare quel contrasto di tenerezza rispetto al limitrofo mortifero e omicidiario del lager. Mentre lavorano, le operaie-schiave del Reich vivono attimi che dentro al campo sono proibiti: sguardi, parole, l’impossibilità di sentire le urla di tutti coloro che vanno alle camere a gas. C’è il rumore delle macchine che fanno spolette per le bombe, che preparano armamenti per la Wehrmacht. E pure assordante, è più sopportabile dello strazio ininterrotto che si ascolta nel campo.

Jeanine, come tutte le altre operaie-schiave, è addetta a macchinari non facili da maneggiare. Un giorno si taglia due falangi. La curano sommariamente: le ricuciono le dita e la rimandano a lavorare. Ma arriva il controllo medico per la selezione: chi è in grado di continuare il “lavoro necessario” per lo sforzo bellico è ancora utilizzabile e viene lasciato vivere; chi non lo è, va alle finte docce e poi passa per il camino…

La visita medica è presieduta da Josef Mengele: si aspetta il cenno favorevole del suo viso per ricoprirsi con la divisa a strisce e tornare al lavoro. Jeanine è dietro a Liliana che viene giudicata ancora idonea. Sa che la ragazza francese difficilmente passerà indenne al controllo: s’è coperta le dita amputate con un piccolo straccio: «Ma quando si è completamente nudi lo traccio si nota».

Liliana, mentre si rimette in fila per uscire sente le parole dei medici. Capisce che per Jeanine è finita. La “vicinanza” con questa ragazza termina. Una amicizia che Liliana si nega perchè «…non volevo provare più quello che avevo provato perdendo tutto… Io che ero appena passata alla selezione, sono stata orribile. Così ero diventata, non mi sono voltata a dirle “Jeanine ti voglio bene, fatti coraggio…”. Anche solo il nome sarebbe bastato. Io non accettavo più distacchi e fui orribile quel giorno. E non ci fu mai più un tempo in cui non mi ricordai di Jeanine, che senza colpa andava al gas…».

Senza colpa. Senso di colpa. Durante la guerra, durante la sopravvivenza nei lager la colpa è un grande interrogativo che si staglia davanti alla mente ogni giorno: perché ci si trova in quei luoghi? Cosa si è fatto di male? Quando subiamo qualche ingiustizia viene spontaneo affermare: «Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male?». Riteniamo di dover sempre essere puniti se commettiamo quale cattiva azione e diamo sempre per scontato che nulla ci possa accadere di ingiusto se noi non siamo ingiusti.

Una sorta di proiezione della ricompensa virtuosa divina in terra. Terminata la guerra, libere e liberi dai lager, i sopravvissuti trasformano l’essere “senza colpa” nella sindrome del sopravvissuto, quel “senso di colpa post-traumatico“, come lo definisce la psicologia, che investe chi non si dà ragione del perché intorno gli siano morti milioni di individui e lui, soltanto lui, sia scampato all’olocausto.

La vita assume i connotati del “privilegio” rispetto a chi l’ha persa e questa elaborazione incoscia viene fuori a poco a poco, travolge l’esistenza, porta molti persino al suicidio per l’insopportabilità del peso di non riuscire a redimersi con una qualunque forma di catarsi.

Raccontare quello che è accaduto nei dodici anni di vita del Terzo Reich e, nello specifico, nel periodo bellico, è stata una forma anche di espiazione di una colpa che non è mai potuta davvero essere tale e che nessuno riterrebbe tale. Per questo Liliana Segre associa sempre al ricordo e alle sue splendide lezioni di storia e di morale umana il dolore che prova nel riviverle.

Il racconto con cui la senatrice chiude il suo ciclo trentennale di trasmissione della memoria, di educazione storica e civica, si chiude formalmente in quella Cittadella della Pace che non lascia spazio a nessun odio, a nessun senso di superiorità tra gli esseri umani, a nessuna creazione di scale gerarchiche in base all’etnia, al credo filosofico, religioso, politico, al sesso, al semplice pensiero o alla condizione sociale.

E’ un pò la concretizzazione della nostra Costituzione: la fratellanza nella libertà, entrambe nel necessario grembo di crescita chiamato uguaglianza. La testimonianza di Liliana Segre va preservata e tramandata perché non siamo mai al sicuro dal ripetere errori del passato nelle differenti forme del presente.

Così come nessun totalitarismo può accampare pretese di eternità, altrettanto putroppo vale per la democrazia, per la socialità, per ciò che più si avvicina all’umanità nuova, separata dagli obblighi morali dettati dal potere economico che ispira quello politico. Per questo la trasformazione sociale è necessaria: senza superamento del capitalismo, non saremo mai sicuri di aver messo da parte, una volta e per tutte, l’ombra di qualunque svastica, l’ombra di qualunque tentazione autoritaria in ogni parte del mondo.

MARCO SFERINI

10 ottobre 2020

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli