Cronache anticapitaliste

Se i grandi raduni internazionali fra le potenze mondiali hanno una qualche virtù, tra queste c’è certamente quella rendere inflazionata la parola “capitalismo” tra giornalisti, intellettuali, economisti e attivisti....

Se i grandi raduni internazionali fra le potenze mondiali hanno una qualche virtù, tra queste c’è certamente quella rendere inflazionata la parola “capitalismo” tra giornalisti, intellettuali, economisti e attivisti. Discutendo delle sorti del pianeta, della crisi economica, di quella pandemica e dello squilibrio ambientale globale, tutti sono costretti a riconoscere che il liberismo è soltanto una contraddizione ulteriore, una esasperazione incontrollabile di un sistema che rimane quello che David Harvey chiama, molto opportunamente, “il problema di fondo“.

Abbiamo infatti un problema, cara Houston, e non lo si può risolvere aggiustando qua e là le disfunzioni che genera ora tra i popoli, ora nelle altre specie animali e nel resto dell’eco-sistema di Gaia. Abbiamo un problema da trecento anni: un problema che si è aggiunto a tanti altri problemi. Lentamente ci siamo lasciati alle spalle – nella stragrande maggioranza dei casi e su buona parte dei continenti – piaghe come la schiavitù legalizzata, ma l’abbiamo sostituita con altre forme di dipendenza indiretta: da bisogni fittizi, creati per alimentare una produzione sempre più vasta di merci, per una accumulazione sempre maggiore di profitto.

Perché questo è lo scopo del capitalismo, anzi, la sua intrinseca specificità, la sua naturale essenza. Una grande quantità di merci. Marx lo spiega benissimo fin dalle prime righe de “Il capitale“, descrivendo le proprietà della merce, i suoi valori invisibili, quasi metafisici, eppure sostanziati dentro ad un prodotto: il valore d’uso e il valore di scambio. Ed infatti, ancora oggi, ogni merce viene usata per uno scopo (e per quello scopo viene prodotta, senza però alcun fine filantropico o umanitarista, perché il capitalismo è alieno a qualunque espressione etica) e viene scambiata per il valore che le è stato dato grazie all’opera della forza-lavoro del salariato, dello sfruttato che sopravvive. Vivere è ben altra cosa.

Il capitalismo è il problema, dunque. Lo è per antonomasia: perché è un sistema economico dove vige la proprietà privata dei mezzi di produzione e, dunque, questa stessa è appannaggio del padrone, dell’imprenditore che si arricchisce grazie al lavoro altrui e allo sfruttamento di tutte le materie prime che riesce a ricavare dalla natura che, così – come giustamente sosteneva Marx nella “Critica al programma di Gotha” – essendo la prima fonte di tutte le ricchezze viene depredata senza alcun ritegno, senza alcun confine morale, senza alcuna preoccupazione per la deforestazione, per la mancanza di aria pulita e respirabile, per l’estensione di coltivazioni intensive che necessitano di così tanta acqua da assetare mezzo pianeta…

Mai come oggi, alla vigilia del sorpasso del punto di non ritorno verso la catastrofe planetaria, la coscienza del problema si fa sentire ovunque: Harvey evidenzia con grande acume come sia profondamente sbagliato parlare di “incoscienza” sociale. Semmai sarebbe più opportuno parlare di “incoscienza di classe“, visto che tutte le lotte che hanno avvampato dall’America Latina al Medio Oriente, dall’Europa all’Asia sono apparentemente scollegate fra loro, ma tutte, proprio tutte rivendicano il diritto dei popoli di poter vivere senza quello sfruttamento, quell’esagerazione merceologica e quella vocazione al consumismo che il sistema capitalistico impone loro.

Proprio dall’America Latina parte l’analisi che il grande geografo marxista fa in “Cronache anticapitaliste – Guida alla lotta di classe per il XXI Secolo” (Feltrinelli, Serie bianca, prima ed. 2020, edizione italiana 2021): la trascrizione di trasmissioni radiofoniche sui temi più attuali dell’involuzione liberista dell’economia di mercato in mezzo all’emergenza pandemica, tra gli sviluppi prepotenti dell’imperialismo cinese che sopravanza sull’Africa, che raggiunge le coste europee e giganteggia con il colosso americano. Un lavoro attento, rivolto ai tanti movimenti spontanei nati sia negli Stati Uniti sia in altri paesi del globo dove sono proprio le cosiddette “lotte di base” a prendere corpo e a ramificarsi.

Per questo che Harvey, fin dalle prime righe del suo manuale contro il moderno capitalismo di rapina dei popoli, smentisce la tesi secondo cui saremmo in una fase calante dell’attenzione sociale, della critica verso le ingiustizie: la sconfitta storica delle forze progressiste è oggettiva. Lo sottolinea più volte evidenziando il paragone tra il sorgere dei sovranismi, dal Cile al Brasile, dagli USA all’Italia, dall’Ungheria alla Russia, dalla Polonia alla Turchia; ma non si fa trarre in inganno e, soprattutto, non si fa prendere dallo sconforto, da una rassegnazione che è passivizzazione singolare e di massa.

Harvey pone come primo tema proprio quello dell'”agitazione globale“, di tante rivolte che durano anche a lungo (Black lives matter, Occupy Wall Street, gli scioperi per il clima, contro l’alterazione degli equilibri naturali, ecc.) ma che poi perdono la loro spinta propulsiva perché non riescono ad ottenere quei risultati per cui la gente viene chiamata in piazza, vi si raduna spontaneamente sbattendo sempre contro il muro di gomma del capitale.

Ecco, dunque, il problema: non il liberismo, che pure va combattuto e contrastato con durezza, bensì proprio la struttura economica su cui tutto questo poggia, il capitalismo. Harvey respinge il disincanto della rivoluzione possibile nell’immediatezza, fatta di quell’inebriante sogno di ribellione totalizzante che dovrebbe unificare il mondo e trasformarlo nel giro di una notte.

«La rivoluzione è un processo lungo, non un evento», sentenzia alla fine del primo capitolo. Ed è una affermazione esemplare che smonta allo stesso tempo ogni tentativo riformistico volto alla conservazione del sistema con qualche correttivo di finta giustizia sociale, ed ogni slancio estremistico che vorrebbe enfatizzare le lotte elevandole ad una altezza in cui l’ossigeno delle coscienze non arriva e, quindi, queste stesse battaglie soffocano, si strozzano e deperiscono prima ancora del tempo.

L’unico “riformismo rivoluzionario” possibile è prendere consapevolezza della necessità di un mantenimento di alcune forme della circolazione delle merci e dei capitali, perché – sostiene Harvey, un po’ ereticamente per molti ortodossi parrucconi, i peggiori conservatori di un marxismo che avrebbe fatto orrore al Moro – oggi non ci possiamo permettere un capovolgimento repentino del sistema: siamo oltre sette miliardi di persone su questo pianeta, con sempre meno risorse e con miliardi e miliardi di altri esseri viventi. Se immaginassimo, anche solo per un istante, di stravolgere tutto accelerando i tempi, affameremmo proprio quei miliardi di proletari, di lavoratori, di sfruttati che diciamo di voler proteggere e per i quali lottiamo socialmente, politicamente, sindacalmente e anche intellettualmente.

L’unico superamento possibile del capitalismo è una graduale irreversibilità fatta di riforme e di cambiamenti radicali nell’essenza sociale delle persone: senza questi cambiamenti nessuna presa di coscienza di classe è possibile. Costringere i capitalisti a cedere davanti alle pressioni dei popoli è importante tanto quanto la forza della natura stessa che reclama i suoi spazi, che rigetta addosso all’umanità che la depreda e la impoverisce una violenza inevitabile.

Harvey sottolinea più volte il compito educativo che ci viene dagli insegnamenti oggettivi, dalla constatazione concreta della realtà: il capitalismo promette a tutti di soddisfare i più elementari bisogni e poi non è in grado di mettere insieme il pranzo e la cena di miliardi di famiglie, costringendole a lavori schiavistici, a vite precarie, alla fame più nera. Lo sviluppo diseguale fa in modo che la concentrazione della ricchezza stia raggiungendo un limite invalicabile: quello dell’impossibilità di produrre sempre più ricchezza stessa, poiché dopo aver immesso sul mercato un valore di merci che si decuplica e si centuplica, non vi sarà più una domanda da soddisfare ma solo bisogni inevasi, grande povertà e miseria.

La lotta anticapitalista, dunque, è viva nonostante la borghesia, l’imprenditoria e la finanza ma, soprattutto, nonostante tanti anticapitalisti che si sono rassegnati o che hanno smesso di lottare perché pensano che il capitalismo sia troppo grande per crollare, mentre dovrebbero accorgersi che è anche troppo mostruoso per durare.

Le cronache anticapitaliste di David Harvey meritano una larga diffusione tra i neo-comunisti del nuovo millennio, tra tutti coloro che non accettano lo stato di cose presente e, pensiero unico o meno, lottano per cambiare il mondo, la società, il rapporto tra esseri umani e altri esseri viventi e tra tutti questi e la natura senza troppi “bla, bla, bla”. Al lavoro e alla lotta.

CRONACHE ANTICAPITALISTE
GUIDA ALLA LOTTA DI CLASSE PER IL XXI SECOLO

DAVID HARVEY, FELTRINELLI, 2021
€ 18,00

MARCO SFERINI

3 novembre 2021

foto: particolare della copertina del libro

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