Precari e flessibili proprio come se non ci fosse un domani

Nessun governo, da molti decenni a questa parte, ha mai intrapreso la via delle riforme sociali. Se, presuntuosamente, si è attribuito questo merito, lo ha fatto il più delle...

Nessun governo, da molti decenni a questa parte, ha mai intrapreso la via delle riforme sociali. Se, presuntuosamente, si è attribuito questo merito, lo ha fatto il più delle volte etichettando come particolare attenzione verso gli strati più poveri della società e verso il mondo del lavoro salariato, della precarietà diffusa nel nome della flessibilità tutta modernamente intesa come elemento propulsore di una economia sempre più liberista.

Laddove per “liberista” si intende una accelerazione di accondiscendenza politico-amministrativa da parte di uno Stato debole che diventa forte, in nome della tutela e difesa dei privilegi dei grandi ricchi e della grande impresa (soprattutto multinazionale), proprio esercitando questo ruolo di corifeo, di servitore cortesissimo del capitalismo di ultima generazione.

Se qualcosa di buono poteva essere rintracciabile nell’opera dei governi precedenti a quello attuale, che sta riunendo in sé il peggio del sovranismo, del populismo e del liberismo a buonissimo mercato (letteralmente…), ovviamente riferendoci a dei tenui miglioramenti delle condizioni contrattuali e dei rapporti in generale nel mondo del lavoro, ebbene questo qualcosa di accettabile era riferibile esclusivamente alla pars construens di un progressismo pentastellato che, però, in quel tempo (soprattutto del governo Conte I), faceva il paio con la pars destruens dei diritti civili e umani.

Del cosiddetto “decreto dignità” era rimasta l’eco lontana, in mezzo ai passaggi cruenti della pandemia e della guerra che tra poco compie un anno di devastazioni, riarmi indiscriminati e aumenti dei profitti delle grandi fabbriche che costruiscono, col beneplacito degli Stati e coi loro finanziamenti, carri armati, bombe, missili, aerei, eccetera, eccetera.

Era rimasta l’eco di una dignità che si perdeva in mezzo alla contingenza urgente dell’intervento nel settore sanitario e in quello del riordinamento delle relazioni internazionali. Ma tuttavia ancora un argine ad un nuovo paventato e, dal punto di vista confindustriale, necessario intervento sulle tutele dei lavoratori e sul regime pensionistico, esisteva e restava a garanzia di quel minimo recupero in tema di diritti sociali.

Persino il governo di Mario Draghi non pensò di rivalersi sulla contrattualità nel mettere mano ai conti dello Stato, nel pensare ad una controriforma dei già notevoli disequilibri esistenti tra impresa e lavoro.

Ed invece, ecco che, raccogliendo le eredità peggiori del berlusconismo, del renzismo, in chiave assolutamente liberista, il governo Meloni si accinge a riconsiderare il legame stretto tra precarietà e flessibilità, riaccomunando ciò che era già evidente e che molti economisti negavano: la simbiosi tra due elementi assolutamente negativi per lo sviluppo comune, utile soltanto al vantaggio economico e finanziario del padronato.

Invece di raggiungere un obiettivo di semplificazione e, quindi, ridurre il numero delle modalità contrattuali, il governo pensa ad aumentarle. E nel farlo intende mettere mano alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, passando dagli attuali 12 alla riproposizione dei 36 mesi previsti dal Jobs act di Renzi.

Perché a fare danni non è solo la destra propriamente intesa, detta e che è tale per nome, cognome e simbolo. Ad inficiare i diritti dei lavoratori sono stati, in questi ultimi decenni, soprattutto governi tecnici sostenuti da maggioranze trasversali e, in particolare, governi di centrosinistra che avrebbero – in teoria, molto in teoria… – declinare le riforme dal punto di vista del mondo lavorativo e non da quello esclusivo dell’impresa.

Ad ogni settimana che trascorre, il governo completa il quadro di un nazionalismo liberista che ha l’appoggio anche di una parte della presuntuosamente presunta opposizione del Terzo Polo: del resto, il rinverdimento delle normative contenute nel Jobs act non può che contentare Calenda e Renzi che hanno siglato un’alleanza proprio per dare vita ad un centro politico antisociale, marcatamente spinto sulle istanze della grande e media impresa, vera e propria quinta colonna della maggioranza meloniana.

I dati degli istituti che si occupano di ricerca sull’attuale contrattualistica del mondo del lavoro ci dicono che, quanto meno, il “decreto dignità” del Conte I aveva posto un freno al dilagare dei contratti a tempo determinato e che, pur non avendo segnato una inversione di tendenza a centottanta gradi, era riuscito se non altro a riportare sul 30/35% la soglia su cui si attestavano i rinnovi dei rapporti di lavoro tra imprese e maestranze, abbandonando quindi un regime di precarietà che, oggettivamente, non garantiva ai padroni nessuna stabilità, nessuna sicurezza in merito.

Il teorema, invece, secondo cui la precarietà sia necessaria per dare maggiore impulso all’economia nazionale, privata o pubblica che sia poco conta per questi neonazi-onalisti al governo, è un notevole passo indietro tanto che va a vantaggio esclusivamente dei grandi gruppi internazionali che operano nel nostro Paese.

La liberalizzazione dei contratti a termine che il ministro del Lavoro Calderone intende mettere in pratica, facendo riemergere quindi una precarietà assoluta rispetto a quella contenuta dai provvedimenti contiani e dalla loro riconferma da parte persino dell’agenda draghiana, si inserisce in un contesto di perfetta coerenza liberista.

Un solco in cui, dal suo insediamento, il governo ha marciato petto in fuori, libro e moschetto alla mano passando per la chiusura rocambolesca della legge di bilancio, la prospettazione della controriforma pensionistica su “quota 103“, il taglio delle spese sanitarie, la fedeltà atlantica alla guerra in Ucraina con il 2% del PIL da regalare alle spese militari e, ora, l’ennesimo attacco frontale a lavoratrici e lavoratori.

Nessuna sorpresa in merito: solo chi ha evitato accuratamente di guardare in faccia la realtà e, a ritroso, la storia politica antisociale delle destre di governo, poteva illudersi che queste potessero portare a Palazzo Chigi un qualche piano riformista sul terreno di una economia che, a partire dall’esecuzione del PNRR, premeva l’acceleratore su dinamiche di mercato da consolidare in Italia, così come in tutto il resto d’Europa.

Strutturale alla conformazione politica reazionaria dei nazionalisti e dei sovranisti è la loro cieca fede in un capitalismo senza limiti, da assecondare in tutto e per tutto.

La propaganda elettorale, intrisa di demagogia rivolta alla primazia italica per l’accesso a tutti i diritti possibili, è e rimane uno sterile carnet di messaggi a senso unico, visto che in un quadro di desolazione sociale in cui il nuovo pauperismo avanza e la crisi polistrutturale si intensifica, il meglio che il governo meloniano dà al Paese è un assottigliamento dei diritti dei lavoratori, delle prospettive di avere una occupazione stabile per quota salariale e per tempo di durata contrattuale.

La congiuntura negativa che emerge da questa indisposizione da parte delle istituzioni a fronteggiare una vera e propria destabilizzazione antisociale, non fa che confermare il sovraccarico di disagi per milioni e milioni di lavoratori e per tutto quel vastissimo settore di precarietà e di lavoro a chiamata che non è nemmeno più considerabile sotto la voce “occupazione” ma che, in questo modo, diventa un surrogato di un mero sussidio. E nemmeno programmato e programmabile dal percettore.

Le polemiche cercate, volute e artatamente inanellate negli stanchevoli dibattiti televisivi, ridondanti di parole parlate, di vuote asserzioni al livello della più bassa retorica impolitica, per definire la precarietà come un successo della moderna propensione alla mutevolezza resiliente del lavoro sono una mortificazione prima di tutto per chi le proferisce.

Il ministro Calderone, nel condividere pienamente lo smantellamento del reddito di cittadinanza, nel non condividere misure come l’introduzione di un salario minimo orario di almeno 12 euro (nelle proposte di Unione Popolare) o di 10 euro (nelle rivendicazioni sindacali di CGIL e UIL), nel non pensare minimamente – come da programma di governo – ad una rimodulazione dell’orario di lavoro a parità di salario e, quindi, ad una redistribuzione del lavoro stesso, sta facendo esattamente quanto i suoi predecessori avevano impostato sull’onda divampante del liberismo globale e del  monetarismo europeo.

C’è una stanchezza generale nella capacità di critica, di aggregazione della stessa, di composizione del conflitto sociale, di sviluppo della lotta di classe. Un uniformità di depressione e di demotivazione che attraversa un po’ tutte le organizzazioni che dovrebbero rilanciare un pensiero ed un’azione progressista in questo Paese.

La rassegnazione non ha ancora prevalso, ma la dura convergenza di grandi problematiche come la pandemia, la guerra e la crisi globale, economica, finanziaria, ambientale e climatica, ha fiaccato e indebolito gli entusiasmi. La disillusione serpeggia e crea una bolla di attendismo che non aiuta né il sindacato, né la sinistra di alternativa ad una ripresa del contrasto di politiche che invece avanzano con prepotenza e che sono tutte rivolte contro la classe lavoratrice, contro i più poveri, deboli e disagiati di questa società.

L’offensiva governativa ha un ampio margine di manovra, anche se deve fare fronte ai primi “fraintendimenti” (siamo generosi e chiamiamoli così…) con le categorie che subiscono i contraccolpi delle scelte di Meloni e dei suoi ministri in materia di reperimento delle risorse. Lo sciopero dei benzinai, riuscito soltanto a metà, ne è la dimostrazione. A doppio taglio: da un lato emerge la protesta ma, dall’altro, il governo non viene scalfito perché temporeggia, divide i sindacati e allunga i tempi degli interventi perequativi.

Dobbiamo dire NO all’estensione a trecentosessanta gradi della precarietà nel nome della flessibilità. Dobbiamo dirlo con la piena consapevolezza di dare piena voce a questa critica che si fonda proprio su anni di sperimentazione dolorosa della stessa flessibilità sulla pelle di milioni di lavoratrici e lavoratori. E dobbiamo farlo interagendo tra forze progressiste e sindacati, tra associazioni culturali e comitati, tra collettivi e singoli. Se esiste ancora una “sinistra diffusa“, seppure molto articolata in sé stessa, è il momento di riconoscerla, di ritrovarla, di rimetterla all’opera.

MARCO SFERINI

26 gennaio 2023

Foto di Kaique Rocha

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